Parsi: «Riformare l’Onu? Il rischio è di perderlo del tutto. La leadership delle democrazie occidentali non è più incontestata»

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A quasi 80 anni dalla nascita dell’Onu «ricostruire qualcosa del genere sarebbe impossibile», spiega Vittorio Emanuele Parsi. E se il Consiglio di sicurezza può sembrare inefficace, «le agenzie specializzate dell’Onu esistono solo perché esiste l’Onu, e il loro lavoro, per molte persone sparse nel mondo, fa la differenza tra la vita e la morte». Alternative possibili? «Nessuna. L’Onu si occupa della sicurezza collettiva, che è un punto di arrivo e un auspicio. La Nato si occupa della sicurezza comune delle democrazie. Ed è chiaro che è insostituibile in questo momento».


Sembra passato un secolo da quando le speranze di un mondo in pezzi trovarono un luogo in cui provare a rimettersi insieme: l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Era il 1945 e si trattava, in fondo, del secondo tentativo di costruire una pace mondiale con una Società delle Nazioni: si era provato dopo la prima guerra mondiale, prima di scoprirsi incapaci di evitarne una seconda.

Sembra passato un secolo non soltanto perché siamo in effetti ben oltre la metà della strada, ma perché il lungo corso dei decenni ha messo in luce le virtù e i molti limiti dell’Onu. Tanto che, sulla soglia o già dentro quella che alcuni indicano come una terza guerra mondiale, a pezzi o tutta intera, le Nazioni Unite sembrano condannate al silenzio. All’inefficacia, se non ad essere ignorate.

Anche il discorso del presidente Meloni per la fiducia alla Camera offre molti spunti di riflessione in questo senso: diversi i riferimenti alla Nato, che «garantisce alle nostre democrazie un quadro di pace e sicurezza che troppo spesso diamo per scontato», così come all’Unione Europea e alle radici giudaico-cristiane dell’Europa, da Benedetto da Norcia a papa Francesco e Giovanni Paolo II. Nessuna menzione dell’Onu, invece, salvo un riferimento all’autonomia di Alto Adige/Südtirol.

Ne parlo con il prof. Vittorio Emanuele Parsi, politologo, editorialista, professore ordinario di Relazioni internazionali nella facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica di Milano, dove insegna anche Studi strategici ed è direttore di Aseri – Alta scuola di economia e relazioni internazionali.

Vittorio Emanuele Parsi
Vittorio Emanuele Parsi

Professor Parsi, da Zelensky a papa Francesco, per ragioni molto diverse si moltiplicano i commenti sull’inefficacia dell’Onu. Che fine hanno fatto le speranze riposte nell’Organizzazione all’indomani della seconda guerra mondiale?

Quello che è cambiato è che abbiamo due potenze, membri permanenti del Consiglio di sicurezza, che in maniera diversa guardano all’ordine internazionale. Questo rende “bloccato” l’Onu, soprattutto nella capacità di intervento sulle questioni più squisitamente politiche, che sono anche quelle più tragiche. La situazione all’Onu dopo il conflitto in Ucraina è diversa dai momenti di crisi che sono stati provocati in passato dagli Stati Uniti, soprattutto durante l’Amministrazione Trump, ma non solo. Allora, in qualche modo, la presa di distanze era nei confronti di un’agenzia piuttosto che di un’altra – Unesco, Oms –, non nei confronti della “istituzione Onu”. Qui, invece, abbiamo una guerra che è una sfida all’assetto internazionale e questo mette in difficoltà l’Onu. Detto questo, va sempre ricordato che le agenzie specializzate dell’Onu esistono solo perché esiste l’Onu, e il loro lavoro, per molte persone sparse nel mondo, fa la differenza tra la vita e la morte.

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Si sta parlando di riformare l’Onu. Qual è il limite maggiore delle Nazioni Unite, oggi?

Bisogna giustamente incalzare l’Onu perché possa migliorare la propria prestazione, però in questo momento più che di riforma parlerei di salvataggio. Il rischio, se ci mettiamo in testa di riformarlo radicalmente, è di perderlo del tutto. Dobbiamo ricordare che l’Onu nasce nel ’45 e recepisce i principi ispiratori, il funzionamento e le regole che sono propri delle democrazie. L’Onu nasce all’interno di quel grande progetto che è l’ordine internazionale liberale, anche se poi si trova immediatamente a lavorare nell’epoca della Guerra fredda, con una parte del mondo che è fuori da quell’ordine. Non viene meno, però, il suo legame con le democrazie. Questa aporia c’è fin dall’origine, ma è un’aporia che è tenuta sotto controllo. Pensiamo ad un fatto: nel ’48 c’è il blocco di Berlino da parte dell’Unione Sovietica, ma è anche l’anno in cui Unione Sovietica e Stati Uniti si accordano per la Dichiarazione universale dei diritti umani. L’Onu ha sempre vissuto una realtà di tensione e, insieme, di istituzione che ha in mente un preciso modello, liberale e democratico. Oggi la contestazione del principio della superiorità della democrazia, da parte della Russia così come della Cina, può mettere in discussione l’Onu. Per questo, più delle riforme, è importante mantenere in vita l’Organizzazione. Di riforme potremo parlare quando sarà passato questo conflitto.

Quindi, prima e più delle riforme “tecniche”, è necessario preservare l’ideale politico.

Sì. Senza l’Onu perderemmo un forum di confronto, un posto – l’Assemblea generale – in cui quasi tutti i Paesi del mondo sono rappresentati. Ricostruire qualcosa del genere sarebbe impossibile.

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Ci sono margini politici e diplomatici per la costruzione di una pace globale oppure dobbiamo arrenderci al realismo di uno scenario internazionale in cui la guerra è inevitabile?

Rispetto al conflitto in Ucraina, se la Russia di Putin non cambia registro non c’è possibilità di pace. Se qualcuno aggredisce, e non cessa di aggredire, non si può parlare di pace, ma solo di resa. E questo sarebbe inaccettabile per gli ucraini, ma anche per noi: la lezione che Putin, e chi come lui, ne trarrebbe è che le democrazie non sono in grado di difendersi, né di difendere un processo di democratizzazione in corso in un Paese che è sulla loro soglia. Le democrazie hanno già vissuto questa situazione: nel ’38, poi nel ’39, poi nel ’47. Una cosa che abbiamo imparato in questi anni è che la pace passa per la libertà, non il contrario. La via della pace non può passare per la via dell’abbandono della libertà alla mercé dei tiranni.

Che alternative abbiamo ad una “società delle Nazioni”?

Nessuna. L’Onu è l’unica istituzione di carattere universale e di scopo generale, con obiettivi tipicamente politici, che corrisponde al livello del mondo e si occupa di tutto. Le nuove istituzioni che potrebbero prenderne il posto sarebbero inevitabilmente regionali. Non va dimenticato che nel ’45 l’Onu fu il frutto di una leadership molto forte degli Stati Uniti e della loro egemonia culturale. Oggi la leadership espressa dalle democrazie occidentali non è più incontestata: lo si vede non solo nella sfida posta dagli autoritarismi, ma anche da altre declinazioni di democrazie politiche. Pensiamo all’India: è comunemente detta “la più grande democrazia del mondo”, ma è una democrazia con un’infinità di limiti. Pensiamo al Brasile e al Sudafrica oggi: sono sistemi preferibili al regime militare o all’apartheid, ma sono molto lontani dagli standard della democrazia che, con tutte le loro contraddizioni, i Paesi occidentali ancora esprimono.

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Parsi, Il posto della guerra. Il costo della pace C’è chi dice che la Nato – un’alleanza militare – sia oggi una valida alternativa all’Onu – un organismo primariamente politico. È credibile?

L’Onu si occupa della sicurezza collettiva, che è un punto di arrivo e un auspicio. La Nato si occupa della sicurezza comune delle democrazie. Ed è chiaro che è insostituibile in questo momento. Se non ci fosse la Nato l’Europa sarebbe in balia della Russia. Su questa cosa ci siamo cullati nell’ideale comodo – perché comportava tanti vantaggi, a cominciare dal gas a basso prezzo – e abbiamo ignorato la natura liberticida e aggressiva del regime di Putin, non solo verso l’esterno, ma anche verso la popolazione russa. Per questo avremo bisogno delle alleanze militari di sicurezza ancora a lungo. Dobbiamo solo sperare che gli Stati Uniti non mollino il colpo a causa di loro contorcimenti interni. In questi giorni, il pronunciamento del gruppo liberal interno al Partito Democratico, guidato da Alexandria Ocasio-Cortez (“l’ala sinistra” dei Democratici, ndr) sostanzialmente esprime le stesse posizioni dell’ala trumpiana e conservatrice del Partito Repubblicano: bisogna trattare con la Russia e chi se ne importa dell’Ucraina. Questo è gravissimo. Se l’America andasse in questa direzione, per l’Europa si aprirebbe una stagione plumbea: da soli rischiamo di essere alla mercé della Russia oppure, per non esserlo, di dover aumentare di molto le spese militari, in un momento già di difficoltà.

Non c’è da stare allegri. Ma, mi perdoni: non saremo invasi da un eccesso di ansia?

Nel mio nuovo libro (Il posto della guerra. E il costo della libertà, Bompiani, in uscita il 9 novembre, ndr) affronto proprio questo aspetto. Provo a fare un lavoro che nel dibattito pubblico italiano si fa pochissimo: non contribuire all’ansia, alla preoccupazione, ma cercare di razionalizzare quanto sta accadendo. Al di là delle diverse opinioni, io vedo un dibattito in cui c’è una nave in acque tempestose, con vento e cielo nero, e alla preoccupazione dei passeggeri viene risposto con il panico di comandante ed equipaggio. Sono esterrefatto.

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