Negli ultimi anni non c’è scandalo nella Chiesa per il quale non si vociferi di un coinvolgimento degli Stati Uniti. Voci alle quali ora si aggiunge quella – autorevole – del metropolita Hilarion. Quale strada hanno imboccato gli Usa?
La tragedia della pedofilia, ma anche la ferita del pamphlet Viganò, che non sembra ancora giunto al suo ultimo atto. Per non parlare delle frange più critiche nei confronti di papa Francesco, a cominciare dal card. Burke e per finire con i finanziamenti che da tempo si dice vengano elargiti da Oltreoceano ad alcuni commentatori delle vicende vaticane. Fino al dossieraggio dei cardinali elettori, il progetto “Red Hat Report”, per iniziativa del sedicente (e facoltoso) “Gruppo per un migliore governo della Chiesa”. Nientemeno.
Da anni, ormai, non c’è pagina spinosa della Chiesa cattolica per la quale non si vociferi di un coinvolgimento degli Stati Uniti. Solo dietrologie senza fondamento? Può darsi, ma sulle quali ora pesano anche le parole del metropolita Hilarion, presidente del Dipartimento delle relazioni esterne del Patriarcato di Mosca e braccio destro del patriarca Kirill.
Che nel pieno della crisi fra Chiesa ortodossa russa e Patriarcato di Costantinopoli indica, da Santa Marta, una possibile pista statunitense. «Da quello che possiamo vedere – riporta Il Messaggero – e mi riferisco alle azioni dei politici americani (che non nascondono le proprie intenzioni), l’America è chiaramente interessata non solo a un indebolimento della Russia ma anche a un indebolimento della Chiesa ortodossa russa. Perciò non dubitiamo che dietro l’azione svolta dal Patriarcato di Costantinopoli ci siano gli Stati Uniti». Che dal canto loro invitano a rispettare il riconoscimento di una Chiesa indipendente in Ucraina, entrando a gamba tesa nella disputa fra Kiev e Mosca. Quanto è realistico che un simile giudizio varrebbe anche nei confronti di una Chiesa – contraddittoria per definizione – “cattolica” statunitense? Oppure è da attendersi che una parte degli Usa intenda puntare ancora più in alto, ad un più generale rafforzamento geopolitico da conseguire anche con la compiacenza di un pontificato più condiscendente dell’attuale? Una strada che passa anche attraverso la delegittimazione.
Sembrano ormai lontanissimi, e un poco ingenui, i tempi nei quali la discussione nel variegato panorama cattolico si consumava attorno ad alcuni nomi forti, su tutti quello del card. Leo Raymond Burke. Oppure a singoli episodi, come l’elezione del card. Daniel Di Nardo a presidente della Conferenza episcopale statunitense, tra i presunti firmatari di una lettera di critiche al Papa per una altrettanto presunta regia pilotata del Sinodo sulla famiglia 2015. Un’elezione che fu giudicata un referendum contrario a Francesco dai media americani.
Uno scenario rispetto al quale è impossibile non ricordare le accuse mosse al network cattolico EWTN di un coinvolgimento nella sortita dell’ex nunzio Viganò. È la tempesta perfetta dell’estate 2018: i postumi del deludente viaggio di Francesco in Cile, lo scandalo pederastia che chiama in causa l’ex card. Theodore McCarrick e il rapporto del Grand Jury della Pennsylvania. Una (fallita) spallata al pontificato, non solo di Francesco, attorno alla quale si consuma invece la frattura fra le due anime del pensiero cattolico statunitense, vecchia e nuova generazione, sempre più spesso digitale e (anti)social, per motivi e in modi diversi ostili all’attuale Pontefice.
Una crescente lontananza, quella tra Francesco e una parte della società statunitense, cattolica e non, che ormai è difficile spiegare soltanto con le divergenze rispetto all’agenda Trump o con qualche scaramuccia da conferenza stampa. Che il controllo della religione sia un’importante freccia all’arco del nazionalismo Usa è fuori di dubbio: lo è stata in ogni epoca per quelle entità politiche avviate al declino, e gli Stati Uniti non fanno eccezione. In questo caso, però, la situazione sembra più complessa. Perché il pontificato di Francesco, al di là dei molti contrasti – un tema su tutti, l’approccio alle persone migranti – sottrae pesantemente alla Casa Bianca (e non solo) il facile uso del Cristianesimo come giustificazione politica.
Una questione di non poco conto, se si considera che potrebbe essere presto importata in Italia. Già se ne registrano i primi – maldestri – tentativi, come quell’85% di cattolici “fedeli” più a Salvini che al Papa riferito alcune settimane fa dal quotidiano Libero. Dati palesemente artefatti, ma che la dicono lunga sugli auspici di una certa parte della società e del mondo politico e mediatico, e che – al pari del “prima gli italiani” e dei cartelli a fondo blu della recente campagna elettorale – ricalcano con poca fantasia il (presunto) favore dei cattolici americani verso il Presidente a discapito del Papa. Mentre due interrogativi rimangono sul tavolo: quale strada hanno imboccato gli Stati Uniti? E soprattutto: dove sono diretti?
© La riproduzione integrale degli articoli richiede il consenso scritto dell'autore.