Cristiani in cammino: alle origini del pellegrinaggio

Erhard Reuwich, Sbarco dei pellegrini a Giaffa fra caverne e rovine (dettaglio), mappa della Terra Santa per la guida di Bernhard von Breydenbach, Mainz, 1486.
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Fra le virtù che il cristiano ha appreso da Cristo c’è sicuramente quella del viaggio. Sin dall’infanzia e ancor più durante il breve arco della sua vita pubblica, Gesù percorse instancabilmente la Terra Santa. E con lui Apostoli e discepoli – uomini e donne – che portarono avanti la pratica del viaggio nell’urgenza di diffondere la buona notizia oltre le barriere geografiche, etnica e linguistiche.

Particolare rilievo storico ha la pratica devozionale del pellegrinaggio. Effetto e derivazione del viaggio di evangelizzazione, essa fu per molti versi opposta ad esso: non movimento centrifugo, ma centripeto, secondo direttrici di viaggio simili, ma inverse.

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«Quanto sarebbe religioso il digiuno»: breve storia del digiuno cristiano

Daniele Crespi, Digiuno di san Carlo Borromeo, 1625 c., Milano, chiesa di Santa Maria della Passione.
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Le pratiche di digiuno e astinenza dal cibo, utilizzate anche da organizzazioni, movimenti e partiti politici in diverse parti del mondo come casse di risonanza a sostegno di particolari iniziative, sono andate incontro nel mondo cristiano ad un progressivo scivolamento di significato, tale da farle ritenere “scioperi della fame cattolici”. Al di là di mere questioni semantiche, il rischio è di perdere di vista la peculiarità storica di una pratica antica di secoli e dotata di proprie specificità. Per questo motivo risulta opportuno ripercorrere brevemente la storia del digiuno cristiano, illuminandone alcune delle caratteristiche, senza dimenticarne le ragioni teologico-evangeliche che ne sono alla base, ma privilegiando in questa sede la componente storica.

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I quattro novissimi dell’arte

Bernt Notke, Danza macabra (particolare), fine XV sec., Tallinn, Chiesa di San Nicolò.
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Definire “novissima” la morte non suona certamente orginale. In realtà questo termine, adattamento del latino novissĭma, sta ad indicare nella teologia cristiana le cose ultime, quelle cui va incontro ineluttabilmente ogni uomo, come la tradizione di questi giorni, privata della sua componente cucurbitacea, ci ricorda.

Morte, giudizio particolare, Paradiso e Inferno, a tratteggiare per il singolo il più generale quadro escatologico del destino ultimo dell’intera umanità. Cose sulle quali teologia ed arte hanno ampiamente riflettuto, giungendo in entrambi i casi a significative vette elaborative, che per l’arte culminarono nel tardo Medioevo in un vero e proprio filone, detto appunto dei quattro novissimi.

Un’elaborazione alla quale diede certamente un insolito – e drammaticamente energico – spunto l’esperienza traumatizzante della peste, alla quale si dovette fra il 1347 e il 1353 la morte di almeno un terzo della popolazione del continente europeo ed eguali decurtazioni di vite in Asia e nel Vicino Oriente. Un avvenimento affatto nuovo e forse anche neppure così inatteso, ma che costrinse una società illusa dalla crescita – più economica che solidale – della tarda età medievale a fare i conti con fattori che la partita doppia dei massari non aveva considerato.

L’epidemia creò le condizioni per l’instaurazione di un rapporto quotidiano, personale e del tutto nuovo con la morte, qualcosa che dalle epoche successive si cercò progressivamente – e con apparente successo – di tornare ad allontanare, sino ancora ai giorni nostri. L’arte ne trasse un inatteso ed originale impulso, confrontandosi con concetti sino a quel momento in gran parte banditi da soggetti pensati in gran parte per mostrare il bello, il buono, l’edificante.

Quest’ultimo messaggio, in verità, non venne meno, ma si connotò di una componente di energica, bruta e realistica fisicità sino a quel momento sconosciuta anche nelle epoche d’oro del naturalismo, e che si fuse rapidamente con i più miti – sebbene non meno vividi ed energici – riferimenti scritturali, veri dominatori sino a quel momento di gran parte dell’arte medievale. Nell’insinuarsi di un gusto per il macabro e lo scioccante, si fece strada una nuova consapevolezza della morte e, con questa, il poderoso cambiamento delle codificazioni artistiche ad essa abbinate, specie nella scultura e nella pittura.

Corpi smagriti in decomposizione (come nei monumenti funebri detti transi, fra i quali caso notevole è la tomba dell’arcivescovo inglese Henry Chichele), ossa esposte, balli commisti di vivi e morti (come nel genere della danse macabretotentanzdanza macabra, diffusa soprattutto nell’Europa centrale e settentrionale), trionfi della malattia e della morte (come nel celebre Trionfo della morte di Buonamico di Martino o Buffalmacco, presso il Camposanto di Pisa), instradamenti di buoni e cattivi a differenti destini eterni (come nel celebre Trittico di Danzica di Memling) si mescolarono e si fusero con le celebrazioni artistiche della vita mondana di fine secolo.

Veri memento mori nella loro traduzione artistica della vanità dell’esistenza, ma anche strumenti di conversione attentamente progettati e collocati in punti strategici all’interno di chiese e cimiteri, a servire da contemplazione e ammonimento. Sorprende ancora oggi l’efficacia delle iscrizioni – veri e propri slogan ante litteram – che invitano prepotentemente al ricordo, all’umiltà e al pentimento: dal più comune noi eravamo come voi, voi sarete come noi, fino ai più elaborati quel che sarete voi, noi siamo adesso: chi si scorda di noi scorda sé stesso (ossario presso la chiesa di San Francesco al Fopponino, a Milano). Echi da un’epoca nella quale l’inventiva non aveva bisogno di zucche vuote.

Hans Memling, Trittico di Danzica, 1467-1473 circa, Danzica, Muzeum Narodowe.
Hans Memling, Trittico di Danzica, 1467-1473 circa, Danzica, Muzeum Narodowe.

Nell’immagine principale: Bernt Notke, particolare della Danza macabra, Tallinn, Chiesa di San Nicolò.

Trekking urbano, slow touring, vagabonding: turismo e arte a passo d’uomo

Siena, Torre del Mangia.
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C’è chi visita Roma in tre giorni e alla fine del tour si è fatto una cultura di sedili di bus e metropolitane. E c’è chi, anche nel turismo, si prende il suo tempo. Se obesità e mal di stomaco sono figli della (non) cultura dei fast-food, confusione e vesciche ai piedi lo sono del “turismo rapido“, pratica diffusa e alla quale certo tutti, prima o poi, si è costretti per diverse ragioni: vacanze ridotte all’osso, lavoro o studio che premono sul poco tempo libero a disposizione. Ma è quando si scopre che non sempre – quasi mai – il “vedere tutto” è migliore del “vedere bene” che si approda in quella che una fantasia prevalentemente anglofona ha chiamato urban-trekking, slow touring, vagabonding, ma che rimane una pratica che trova in Italia una delle sue mete privilegiate e nella cultura italiana una delle più adatte e ricettive. Un turismo a passo d’uomo, un po’ figlio del ritmo del pellegrino medievale e un po’ della moderna sostenibilità, nel quale sono la città e l’arte ad adattarsi ai ritmi umani e non il contrario.

Una buona notizia, che merita certamente di essere festeggiata e che infatti Siena, fra le città capofila di questa pratica di umanità e arte, celebrerà dal 25 ottobre fino al 3 novembre. Ad essere ricordati saranno i dieci anni dell’iniziativa Trekking urbano, che coinvolge ormai 34 comuni italiani (pochi), con eventi che spazieranno dalla scoperta delle stanze segrete del Palazzo comunale, uno fra gli edifici più rappresentativi di un certo Medioevo italiano, al volo in mongolfiera sopra l’inconfondibile profilo della città toscana. Le opere dell’ingegno e del lavoro di Giovanni Pisano, Lippo Memmi, Sano di Pietro, Giovanni Antonio Bazzi detto “il Sodoma”, Lorenzo di Pietro “il Vecchietta”, Domenico e Rutilio Manetti si apriranno all’osservatore come una lunga corsa dal Trecento all’epoca moderna. Una corsa lenta, che è impossibile farsi scappare.

Nell’immagine: Siena, Torre dela Mangia.