I quattro novissimi dell’arte

Bernt Notke, Danza macabra (particolare), fine XV sec., Tallinn, Chiesa di San Nicolò.
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Definire “novissima” la morte non suona certamente orginale. In realtà questo termine, adattamento del latino novissĭma, sta ad indicare nella teologia cristiana le cose ultime, quelle cui va incontro ineluttabilmente ogni uomo, come la tradizione di questi giorni, privata della sua componente cucurbitacea, ci ricorda.

Morte, giudizio particolare, Paradiso e Inferno, a tratteggiare per il singolo il più generale quadro escatologico del destino ultimo dell’intera umanità. Cose sulle quali teologia ed arte hanno ampiamente riflettuto, giungendo in entrambi i casi a significative vette elaborative, che per l’arte culminarono nel tardo Medioevo in un vero e proprio filone, detto appunto dei quattro novissimi.

Un’elaborazione alla quale diede certamente un insolito – e drammaticamente energico – spunto l’esperienza traumatizzante della peste, alla quale si dovette fra il 1347 e il 1353 la morte di almeno un terzo della popolazione del continente europeo ed eguali decurtazioni di vite in Asia e nel Vicino Oriente. Un avvenimento affatto nuovo e forse anche neppure così inatteso, ma che costrinse una società illusa dalla crescita – più economica che solidale – della tarda età medievale a fare i conti con fattori che la partita doppia dei massari non aveva considerato.

L’epidemia creò le condizioni per l’instaurazione di un rapporto quotidiano, personale e del tutto nuovo con la morte, qualcosa che dalle epoche successive si cercò progressivamente – e con apparente successo – di tornare ad allontanare, sino ancora ai giorni nostri. L’arte ne trasse un inatteso ed originale impulso, confrontandosi con concetti sino a quel momento in gran parte banditi da soggetti pensati in gran parte per mostrare il bello, il buono, l’edificante.

Quest’ultimo messaggio, in verità, non venne meno, ma si connotò di una componente di energica, bruta e realistica fisicità sino a quel momento sconosciuta anche nelle epoche d’oro del naturalismo, e che si fuse rapidamente con i più miti – sebbene non meno vividi ed energici – riferimenti scritturali, veri dominatori sino a quel momento di gran parte dell’arte medievale. Nell’insinuarsi di un gusto per il macabro e lo scioccante, si fece strada una nuova consapevolezza della morte e, con questa, il poderoso cambiamento delle codificazioni artistiche ad essa abbinate, specie nella scultura e nella pittura.

Corpi smagriti in decomposizione (come nei monumenti funebri detti transi, fra i quali caso notevole è la tomba dell’arcivescovo inglese Henry Chichele), ossa esposte, balli commisti di vivi e morti (come nel genere della danse macabretotentanzdanza macabra, diffusa soprattutto nell’Europa centrale e settentrionale), trionfi della malattia e della morte (come nel celebre Trionfo della morte di Buonamico di Martino o Buffalmacco, presso il Camposanto di Pisa), instradamenti di buoni e cattivi a differenti destini eterni (come nel celebre Trittico di Danzica di Memling) si mescolarono e si fusero con le celebrazioni artistiche della vita mondana di fine secolo.

Veri memento mori nella loro traduzione artistica della vanità dell’esistenza, ma anche strumenti di conversione attentamente progettati e collocati in punti strategici all’interno di chiese e cimiteri, a servire da contemplazione e ammonimento. Sorprende ancora oggi l’efficacia delle iscrizioni – veri e propri slogan ante litteram – che invitano prepotentemente al ricordo, all’umiltà e al pentimento: dal più comune noi eravamo come voi, voi sarete come noi, fino ai più elaborati quel che sarete voi, noi siamo adesso: chi si scorda di noi scorda sé stesso (ossario presso la chiesa di San Francesco al Fopponino, a Milano). Echi da un’epoca nella quale l’inventiva non aveva bisogno di zucche vuote.

Hans Memling, Trittico di Danzica, 1467-1473 circa, Danzica, Muzeum Narodowe.
Hans Memling, Trittico di Danzica, 1467-1473 circa, Danzica, Muzeum Narodowe.

Nell’immagine principale: Bernt Notke, particolare della Danza macabra, Tallinn, Chiesa di San Nicolò.

La Spagna bella: Murillo, Gaudí e l’arte per il popolo

Bartolomé Esteban Murillo, Santa Famiglia con l'uccellino, 1632, Madrid, Museo del Prado.
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La carenza di investimenti nel comparto della cultura e un mercato dell’arte orientato alle disponibilità economiche dei nuovi ricchi del mondo sembrano delineare con chiarezza un quadro nel quale l’esclusione dei “poveri” – con o senza le virgolette – è palpabile. Eppure nella storia dell’arte le eccezioni sono numerose. Due, in particolare, ci vengono luminosissime dalla Spagna e il loro modello è in grado di dire molto più di fredde e ripetitive politiche sociali, in gran parte destinate a rimanere sulla carta.

È il caso dell’arte di Bartolomé Esteban Pérez Murillo (1618-1682), fra le figure più importanti della pittura barocca spagnola. Nato a Siviglia, città nella quale trascorse gran parte della sua vita, Murillo visse in un periodo che per il Paese fu carico di ambivalenze. Se infatti per l’arte il Seicento fu un’età dell’oro, fu un’epoca ben diversa per gran parte della popolazione: epidemie, carestie e fame avevano reso le città spagnole luoghi di diseredati e vagabondi.

Una situazione tragica che non fu estranea allo stesso Murillo. La condizione del suo popolo – al quale era legatissimo – e le traversie della sua stessa vita (rimase orfano in tenera età e poi vedovo, con quattro figli sopravvissuti dei nove che ebbe dalla moglie) lo portarono a maturare una speciale sensibilità per l’infanzia, che trovò nelle schiere di bambini mendicanti che affollavano le strade di Siviglia un destinatario privilegiato. Un’affezione in grado di trasparire con forza dalle sue opere, tanto nei soggetti quanto nelle tematiche trattate.

Un’attenzione agli ultimi che, unita ad una volontà fattiva, condusse Murillo a legarsi alla committenza di Don Justino de Neve, canonico della cattedrale di Siviglia e già fondatore di santuari, opere pie e dell’Ospedale dei Venerabili per la cura dei sacerdoti anziani o invalidi. Legati da profonda amicizia personale, Murillo e de Neve condivisero la sensibilità per la dignità dei più poveri, che si espresse nel tentativo di sopperire tanto alle loro necessità materiali quanto a quelle spirituali, culturali e – perché no – estetiche, nell’ottica di un’approccio alla persona intesa nella sua indivisibile integrità. Ad essi Murillo intese rivolgersi con la propria arte, recuperando una tradizione arte per il popolo, di bellezza ed elevazione antica di secoli e che aveva avuto con il popolo e i decori delle cattedrali di età medievale una delle sue epoche auree.

Un testimone che possiamo dire raccolto due secoli dopo da Antoni Gaudí (1852-1926). Massimo esponente del modernismo catalano, ma sostanzialmente personalità unica e difficilmente collocabile in categorie rigide, Gaudì mostra coincidenze sorprendenti con alcuni dei tratti più significativi di Esteban Murillo. Innanzitutto i forti legami con la sua terra natale, in questo caso la Catalogna; con la sua capitale, Barcellona; con la sua gente. La stessa che lo condurrà ad intraprendere un’impresa non più tentata da secoli: l’edificazione di una cattedrale. Il risultato è – sarà – il Tempio Espiatorio della Sacra Famiglia, fra le più note cattedrali del mondo, un nome che è un impegno programmatico, di un programma che prima di tutto fu per Gaudì un progetto di vita.

La leggenda – vera – che circonda la Sagrada Familia è celebre: una basilica edificata in quella che era una periferia semi-deserta, una cattedrale costruita grazie alla mendicanza del suo architetto e alle offerte de los pobres, gli stessi poveri fra i quali morirà Gaudì – povero come loro – all’ospedale della Santa Croce, investito da un tram tre giorni prima, mentre si recava all’oratorio di San Filippo Neri. Lo stesso oratorio nella cui cappella, pochi anni prima, Llimona i Bruguera aveva dipinto san Filippo nell’atto di celebrare l’Eucaristia e benedire i bambini con il volto canuto e barbuto dello stesso Gaudì.

La Sagrada Familia, fiore all’occhiello dell’architetto catalano, opera della sua vita per un cliente che no tiene prisa – non ha fretta, come amava ricordare Gaudì – ricca cattedrale dei poveri e per poveri. Non triste e dimessa, ma splendida e svettante. Lontana dal volersi far minima per i poveri, è resa grande per farli grandi assieme a sé e per tutti contenerli, eppure celebrando al tempo stesso la Natività, il farsi piccolo di Dio per eccellenza. Figlio di calderai, gli artigiani del rame, fu Gaudì – e non la sua opera – a farsi piccolo nella Barcellona ambiziosa e avanguardista di inizio Novecento, arrivando a chiedere personalmente l’elemosina – «un centesimo, per amore di Dio» – nelle strade della città che lo aveva reso incredibilmente famoso.

Attenzione ai poveri, ai bambini, alla famiglia, alla dignità della persona integrale e una fede vissuta con coerente impegno fattivo accomunarono questi due grandi artisti. Una volontà che si espresse nel donare bellezza ai poveri – probabilmente non fra i beni più necessari, ma certo fra i più sottovalutati quando si pensa agli interventi di aiuto, in gran parte appiattiti sul mero piano economico – legò due fra i maggiori artisti del mondo e di Spagna. Una Spagna bella, che rende belli.

Nell’immagine: Bartolomé Esteban Murillo, Santa Famiglia con l’uccellino, 1632, Madrid, Museo del Prado.

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