In principio fu Duterte, votato in massa dai filippini nonostante i pesanti insulti al Papa. Poi l’accordo di pace fra il governo colombiano e le Farc, affossato dall’assenteismo. Infine la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, aspramente criticato da Francesco durante la campagna elettorale. Coincidenze che iniziano a diventare una regola?
Da sindaco di Davao, capitale de facto dell’isola di Mindanao, aveva definito papa Francesco un “hijo de puta” per aver intasato il traffico di Manila durante la sua visita all’arcipelago, nel gennaio 2015. «Abbiamo perso cinque ore per andare dall’hotel all’aeroporto. Ho chiesto chi si stava aspettando. Hanno detto che si trattava del Papa. Papa, hijo di puta, tornatene a casa. Non venire più qui in visita», aveva tuonato allora Rodrigo “il castigatore” Duterte, eccentrico uomo politico filippino. Un insulto che insieme alla propensione alla pubblica bestemmia e ai sistemi poco ortodossi di controllo della criminalità – si dice essenzialmente basati sugli squadroni della morte – gli ha creato più di un attrito con la Chiesa cattolica. Un problema di non poco conto, verrebbe da pensare, per la carriera politica di uomo in un Paese a netta maggioranza cristiana come le Filippine (92,5% di cristiani, dei quali l’81% cattolici). E invece no, stando almeno ai risultati elettorali, che nel giugno scorso hanno premiato Duterte, privo di esperienza politica a livello nazionale, con un ragguardevole 39% di voti, staccandolo dai suoi rivali di oltre 15 punti e aprendogli da presidente le porte del Palazzo di Malacañan.
Meno netta la presa di posizione della Chiesa cattolica nel referendum dell’ottobre scorso in Colombia, volto a legittimare l’accordo di pace fra il governo del presidente e premio Nobel per la pace, Juan Manuel Santos, e le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie) dopo oltre 50 di conflitto. Forte della maggioranza cristiana del Paese – 80% di cattolici – la Conferenza episcopale colombiana, pur non assumendo espressamente una posizione, si era spesa per la partecipazione dei colombiani al voto, promuovendo una giornata di preghiera e discernimento in vista della «grande responsabilità ed impegno». Un appello rivolto soprattutto ai credenti, che «non possono assumere un atteggiamento di indifferenza o disinteresse di fronte a tale processo». Ad imporsi per 65mila voti di scarto alla fine è stato il no (51,3% contro il 49,7%), anche con il sostegno di evangelici e cattolici. Un esito che sarebbe semplicistico ridurre ad un irrealistico rifiuto della pace e segnato profondamente – fatto che la dice lunga sulla salute della politica colombiana – dall’incidenza dell’astensionismo, che ha superato il 60%.
Poi è venuto Donald Trump. Già oggetto di paragoni con Duterte – che a suo tempo aveva tenuto a precisare che l’americano sarebbe un «bigotto», a differenza sua – non si può certo dire che il presidente eletto degli Stati Uniti abbia incassato l’appoggio della Santa Sede durante una campagna elettorale condotta sopra le righe. Una scelta certo non facile, con l’avversaria Hillary Clinton attestata orgogliosamente in difesa di aborto, unioni omosessuali e cosiddetta teoria del gender. Un candidato non cristiano, aveva definito Trump papa Francesco, sul volo di ritorno dal viaggio in Messico, nel febbraio scorso, o per meglio dire «una persona che pensa soltanto a fare muri, sia dove sia, e non a fare ponti, non è cristiana». Un giudizio che replicava in parte alle accuse rivolte da Trump al Pontefice, che lo volevano come un «uomo politico» e addirittura una «pedina» del governo messicano in materia di immigrazione. «Che un leader religioso metta in dubbio la fede di una persona è vergognoso – aveva a sua volta replicato Trump in un comunicato – nessun leader, in particolare religioso, dovrebbe avere il diritto di mettere in dubbio la religione o la fede di un altro uomo».
Ebbene, anche in questo caso dietro al successo di Trump sembra esserci il voto di cattolici ed evangelici, forse più inclini a preferire di Trump le promesse di restaurazione economica che non a punire la Clinton per le posizioni inconciliabili con la fede. Con tutti i limiti – pesantissimi – che exit poll e previsioni hanno mostrato in queste ore su un elettorato pronto ad adeguarsi al pensiero (mediatico) dominante molto più fuori che dentro la cabina elettorale, le prime analisi dicono di un 52% di voti cattolici per Trump, contro un 45% a favore della Clinton. Percentuali che si fanno ancora più nette fra gli evangelici, dei quali l’81% sembra abbia votato per il candidato repubblicano (e il 16% per quella democratica), insieme ad un 59% di afroamericani evangelici e a discrete percentuali di mormoni e – seppur minoritarie, nell’ordine forse di 1 su 3 – dei tanto bistrattati latinos.
Populismo? Voto di protesta? Quel che è certo è che la Chiesa è sempre più spesso costretta a confrontarsi con protagonisti della scena politica e pronunciamenti popolari che sembrano venire più dalla “pancia” – anche da riempire – che da solidi programmi di governo. A sostenere Trump – e a punire il tandem Obama-Clinton – sono stati probabilmente quei «milioni di americani che stanno faticando a trovare opportunità economiche positive per le loro famiglie» e che «hanno votato per essere ascoltati» cui ha fatto riferimento mons. Joseph E. Kurtz, presidente della Conferenza episcopale Usa, in una nota nella quale si congratula con il nuovo presidente degli Stati Uniti e con i neo-eletti al Congresso. «La nostra risposta dovrebbe essere semplice: “Vi ascoltiamo”», ha proseguito mons. Kurtz. «La responsabilità di contribuire a rafforzare le famiglie appartiene ad ognuno di noi» e l’auspicio è che il nuovo presidente possa «attivarsi per proteggere la vita umana dal suo inizio fino alla sua conclusione naturale».
«Prendiamo atto con rispetto della volontà espressa dal popolo americano in questo esercizio di democrazia. Il suo governo possa essere fruttifero. Assicuro la nostra preghiera perché il Signore lo illumini e lo sostenga al servizio della sua patria e della pace nel mondo», ha dichiarato il Segretario di Stato di Sua Santità, Pietro Parolin. Nella sempre più urgente necessità di «cambiare la situazione mondiale di grandi lacerazioni», finora le parole di Trump non hanno contribuito alla distensione, almeno non più di quanto abbiano fatto la scomposta opposizione di Hillary Clinton alla Russia di Putin e il suo peso di Segretario di Stato nei conflitti in Libia e Siria. Per il futuro, saranno il tempo e la storia a parlare.
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