Sinodo per l’Amazzonia. Sul celibato il Brasile chiama, l’Ucraina ha già risposto

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Carenza di vocazioni? Colpa del celibato. Un marketing banale già smentito dalla storia. E dalla Chiesa ucraina, dove i sacerdoti si sposano.

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Si è molto parlato, in vista del Sinodo per l’Amazzonia che prenderà il via domenica 6 ottobre, del celibato dei sacerdoti. Alte cariche ecclesiastiche sono intervenute – e sono state fatte intervenire – a sostegno delle diverse posizioni, con il consueto rischio di ridurre tutto ad un sondaggio pro o contro Francesco. Perplessità su alcuni passi dell’Instrumentum laboris del Sinodo per l’Amazzonia sono stati raccolti dal vescovo kazako Athanasius Schneider e dal cardinale venezuelano Jorge Urosa Savino, insieme ai nomi più noti e ricorrenti dei cardinali Walter Brandmüller, Gerhard Müller, Robert Sarah e Raymond L. Burke. Ultimo in ordine di tempo il canadese Marc Ouellet, estraneo all’abituale gruppo dei “dubbiosi”. Due dichiarazioni, però, raccolgono meglio di altre le attese e i limiti di queste in vista del Sinodo.

È l’inizio di settembre quando in Rete circola un video di don Giovanni Nicolini, sacerdote dell’arcidiocesi di Bologna, assistente ecclesiastico nazionale delle ACLI e in passato direttore della Caritas di Bologna, figlio spirituale di Dossetti ed esponente di quella “scuola di Bologna” che fra i suoi membri conta anche il fondatore del monastero di Bose Enzo Bianchi e lo storico della Chiesa Alberto Melloni. Nel video, don Giovanni Nicolini le spara grosse. L’incipit del suo intervento la dice lunga. «Sento l’opportunità di ricordare, insieme a voi – dice Nicolini – che la Chiesa dei preti sta finendo. No è una profezia, è la realtà. Di questo bisogna tener conto, perché cambia completamente. Adesso stiamo arrivando all’apice della follia: ogni prete porta avanti sei parrocchie, così però è la fine. Questa crisi del presbiterato in ogni caso implacabilmente aumenterà, finché non venga preso molto sul serio il pensiero circa l’opportunità di abolire il celibato dei preti. Finché questo celibato dei preti resta, la discesa è inarrestabile».

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Parole che potrebbero essere il manifesto di un certo filone ecclesiale, che, per sentito dire e con poca riflessione, ha attecchito anche fra i laici cattolici: l’abolizione del celibato sacerdotale come panacea per la carenza di vocazioni. Si badi: l’ordinazione di laici sposati – al pari dell’ordinazione di donne – nulla ha a che vedere con l’auspicabile valorizzazione del laicato, la cui responsabilizzazione, in chiave missionaria e di maturità di fede, è la via da percorrere, con uno sguardo al Vaticano II di Paolo VI. Affrettate ipotesi alternative, invece, promettono soltanto di generare confusione nei fedeli e indebite sovrapposizioni. Una strategia di marketing banale, offensiva per i sacerdoti che vivono il celibato e riduttiva per quelli uxorati, per giunta smentita dalla storia. Ne conseguirebbe anche lo svilimento del matrimonio, da vocazione a semplice scelta di opportunità. Uno sguardo al protestantesimo mitteleuropeo dovrebbe essere sufficiente. Ma anche, con ben altri esempi, alla ricca esperienza della cristianità orientale, nella quale i sacerdoti sposati sono da sempre una realtà, anche nella Chiesa cattolica.

È il caso della Chiesa greco-cattolica ucraina. A tratteggiarne un efficace ritratto in un’intervista a Crux è mons. Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore di Kiev-Halyč, una lunga esperienza come vescovo ausiliare e poi amministratore apostolico di Santa Maria del Patrocinio in Buenos Aires degli Ucraini, nella capitale argentina dell’arcivescovo Jorge Mario Bergoglio, che per alcuni anni è anche ordinario per i fedeli di rito orientale in Argentina. Cinque seminari fiorenti in Ucraina non distraggono mons. Shevchuk dalla vera natura della vocazione. Merito del celibato? Nulla affatto. «Una profonda chiamata del Signore ad essere suo sacerdote. Tutto il resto deve essere sottomesso a questa chiamata centrale», chiarisce Shevchuk.

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Se in Ucraina la penuria di sacerdoti non è una questione all’ordine del giorno, la situazione è ben diversa in altre aree del mondo nelle quali la Chiesa greco-cattolica ucraina è presente. È il caso di Stati Uniti e Canada. «La stessa Chiesa, con lo stesso modo di vivere la vocazione sacerdotale, in altri Paesi nel mondo non gode della stessa quantità di vocazioni», spiega mons. Shevchuk. Ben più della possibilità o meno di sposarsi, dunque, sono società intrise di secolarismo e di omologazione a fare la differenza, scoraggiando le vocazioni, al pari di ogni altra scelta coraggiosa. «Lo stato di famiglia non favorisce le vocazioni al sacerdozio. Questa è la nostra esperienza», chiarisce mons. Shevchuk. Un’esperienza che, per il suo grande valore spirituale e storico, merita certamente di essere tenuta in considerazione. Insieme ad un consiglio per il Sinodo per l’Amazzonia: «Non cercare soluzioni semplici a problemi complessi», dice Shevchuk.

Fra i grandi peccati del nostro tempo c’è, infatti, quello di ritenersi i primi ad affrontare certe difficoltà e, per giunta, di pensare di essere i migliori nel porvi rimedio. «Per essere moderni qualcuno crede che è necessario staccarsi dalle radici, e questa è la rovina: perché le radici, la tradizione, sono la garanzia del futuro, non un museo», ricordava poche settimane fa papa Francesco. «Le radici ti portano la “flebo” per far crescere l’albero, fiorire e fruttificare. Staccarsi dalle radici è un suicidio». Una metafora calzante per il Sinodo per l’Amazzonia. E anche un ottimo punto di partenza.

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