San Benedetto, patrono dell’Europa. Di più, padre spirituale di quella che un tempo era stata pensata come una Comunità, oggi ridotta ad un’Unione che rischia l’anonimato della spersonalizzazione. Ma anche i santi Cirillo e Metodio, la cui memoria di co-patroni d’Europa, festeggiata solo pochi giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina, dice la realtà di un continente a due polmoni. E i pericoli dell’asfissia di un mondo in guerra.
Da decenni l’Europa non si trovava così lontana dal respirare a pieni polmoni, oppressa da una guerra che è fratricida non soltanto fra russi ed ucraini e soffocata da una sterile contrapposizione culturale – e peggio sarebbe se fosse anche religiosa – che non ha ragione di essere. Un’immagine, quella di un’Europa e di una Chiesa che respirano «a due polmoni», che i più ricordano spesso citata da Giovanni Paolo II, ma che in realtà è da attribuire ad uno dei più originali poeti, filosofi e filologi russi, Vjačeslav Ivanovič Ivanov.
Ecumenismo incarnato
«Libero da un sentimento di malessere, divenuto a poco a poco sofferenza, per essere staccato dall’altra metà di questo tesoro vivo di santità e di grazia, e di respirare, per così dire, come un tisico, che con un solo polmone», confessa di sé Ivanov, ricordando la boccata d’aria presa con la recita del Credo cattolico – lui, cresciuto nel materno misticismo ortodosso – nella basilica di San Pietro di Roma il 17 marzo 1926, festa di san Venceslao in Russia (Lettre à Charles Du Bos, 1930, in Vjačeslav Ivanov. Opere raccolte, vol. 3, Bruxelles, 1979, p. 426). Un passaggio personale, ma importante per comprendere più a fondo la storia e il patrimonio teologico, spirituale e culturale del cristianesimo, così come le radici dell’Europa.
Nato a Mosca nel 1866, attratto dalla Grecia pagana prima che da quella cristiana, Vjačeslav Ivanov percorre l’Europa da Berlino a San Pietroburgo, divenendo un protagonista del movimento simbolista russo e accogliendo con tepidezza la rivoluzione del 1917 prima di emigrare in Italia. Qui insegna a Pavia e poi a Roma, al Pontificio Istituto di Studi orientali. Nel 1926, incarnando in sé l’ecumenismo europeo, abbraccia la Chiesa cattolica, riconoscendo – senza abiurare – «per giudice supremo in materia di religione colui che è stato riconosciuto per tale da sant’Ireneo, san Dionigio il Grande, sant’Atanasio il Grande, san Giovanni Crisostomo, san Cirillo, san Flaviano, il beato Teodoreto, san Massimo Confessore, san Teodoro Studita, sant’Ignazio, san Venceslao Martire… cioè l’Apostolo Pietro, che vive nei suoi successori», cioè i Papi.
La sintonia con un Papa venuto dall’Est
E proprio con un Pontefice, venuto anch’egli a Roma dalla «lontana» Europa dell’Est, Ivanov avrebbe maturato, postuma, una peculiare sintonia. «Non si può respirare come cristiani, direi di più, come cattolici, con un solo polmone; bisogna aver due polmoni, cioè quello orientale e quello occidentale», spiega nel 1980 Giovanni Paolo II, rievocando la propria visita a Costantinopoli. Lo stesso anno, con una mossa tutt’altro che scontata, Wojtyła proclama i santi Cirillo e Metodio co-patroni d’Europa (lo sono, oggi, con le sante Brigida di Svezia, Caterina da Siena e Teresa Benedetta della Croce), riconoscendo nella lettera apostolica Egregiae virtutis il loro «apostolico ministero presso i popoli slavi, i quali, grazie alla loro premura e al loro impegno, conobbero la luce del Vangelo». Animati dallo zelo, percorsero la Crimea, la Moravia, la Bulgaria e la Polonia. Metodio «successivamente, come alcuni raccontano, recatosi nella Moscovia propriamente detta, fondò il trono pontificale di Kiev» (Leone XIII, Lett. Enc. Grande munus, 30 settembre 1880).
«L’Europa, infatti, nel suo insieme geografico è per così dire frutto dell’azione di due correnti di tradizioni cristiane, alle quali si aggiungono anche due diverse, ma al tempo stesso profondamente complementari, forme di cultura», scrive ancora Giovanni Paolo II nella Egregiae virtutis. Benedetto, Cirillo e Metodio. «Tale annuncio è stato via e strumento di reciproca conoscenza e di unione fra i diversi popoli dell’Europa nascente, ed ha assicurato all’Europa di oggi un comune patrimonio spirituale e culturale».
Sobornost
Una forma di sobornost, in russo, “uno stato di unione” nel quale «l’uomo riconciliato con se stesso e con tutta la creazione può così ricostituire l’essenziale comunità», una koinonìa di tutti i popoli in Cristo, nella quale riunirsi sulla base di quanto accomuna e non secondo la precarietà di opposti individualismi. A Varsavia come a Budapest, a Bruxelles come a Roma, Mosca e Kiev, dove la storia è il riflesso di una fede profondamente radicata nella memoria, perché «l’anima slava […] appartiene sia all’Oriente che all’Occidente e si nutre a questa doppia sorgente del patrimonio comune, radicato nella fede in Cristo».
Per quanto, ancora? Ben poco, se i nuovi interessi che l’Europa chiama “valori” impongono l’aborto come diritto e il gender come programma educativo, le speculazioni dell’industria delle armi come strumento di pace e la sottrazione esistenziale dell’uomo come via dell’ecologismo. Finché si giungerà a dire con un altro russo, Dostoevskij: «Quanto più amo l’umanità, tanto meno amo gli uomini in particolare, cioè presi separatamente, come singoli individui». L’ideologia sopra la carne, la geopolitica sopra le persone, i missili sopra le case.
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