C’è santo e santo, equipollente o meno, ma quel che è certo è che la Chiesa non ha bisogno di supereroi. «Non sono superuomini, né sono nati perfetti, sono come noi, come ognuno di noi», sottolinea Francesco nella sua prima solennità di Tutti i Santi da Papa, il 1° novembre 2013. «I santi – prosegue allora il Papa – sono uomini e donne che hanno la gioia nel cuore e la trasmettono agli altri […]; pregare e vivere nella gioia: questa è la strada della santità».
Per alcune santità si specifica l’equipollenza, tornata d’interesse giornalistico dopo che il Papa ha proclamato santa con tale procedura Margherita di Città di Castello, religiosa del Terz’Ordine dei Frati Predicatori vissuta fra il XIII e il XIV secolo, venerata finora come beata. La pratica della canonizzazione equipollente è stata sempre presente nella Chiesa e attuata regolarmente, anche se non frequentemente, ricorda in un vecchio articolo per l’Osservatore Romano il card. Angelo Amato, prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi. In sostanza, attraverso la canonizzazione equipollente il Papa estende alla Chiesa universale, mediante un decreto, un culto attestato da tempo, senza ulteriori indagini e senza attendere il verificarsi di un miracolo specifico. La canonizzazione equipollente, rivestendo tutte le caratteristiche della consueta canonizzazione, equivale ad essa.
Di elenchi di canonizzazioni, equipollenti comprese, sono già ricche le enciclopedie online. Più interessante è leggere fra le righe, cogliendo nella decisione più diretta dei pontefici il messaggio che essi intendono suggerire attraverso queste canonizzazioni, e non altre. In un modo o nell’altro, un segno e una lettura del nostro tempo.
Per decenni, ad esempio, si privilegiano santi di antica fama – e di ancor più antica vita – almeno dal tempo di Urbano VIII (1623-1644), il grande legislatore delle cause dei santi: un modo per sottolineare il legame con la Chiesa dei primi secoli e dell’età d’oro del medioevo. È il caso di Raimondo Nonnato e Pietro Nolasco, entrambi vissuti nel Duecento e dell’Ordine di Nostra Signora della Mercede; ad essi nel 1692 si aggiunge Maria de Cervellòn, per volere di Innocenzo XII; e ancora Ferdinando III, re di Castiglia, canonizzato per decreto di Alessandro VII, come Giovanni de Matha e Felice di Valois, entrambi dell’Ordine della Santissima Trinità; fino all’infornata record, tuttora insuperata, di Leone XIII a fine Ottocento: 78 canonizzazioni equipollenti, tutte di persone vissute fra il II secolo e il Quattrocento.
Così ancora accade con Giovanni Paolo II, indiscusso protagonista di quella che talvolta è indicata come la “fabbrica dei santi” (482 nuovi santi e 1.341 beati in 27 anni di pontificato): figure dei secoli precedenti, con un particolare interesse per la Polonia, per devozione personale e perché crocevia della storia contemporanea. Il messaggio di Giovanni Paolo II è chiaro: la Chiesa del Novecento e del nuovo millennio è ancora protagonista della storia e, a pieno titolo, Chiesa dei martiri e martire essa stessa. Giovanni Paolo II fa, però, scarso uso dell’equipollenza. Vengono ricordati tre episodi: la canonizzazione dei martiri croati seicenteschi Marco di Krizevci, Stefano Pongrácz e Melchiorre Grodziecki (questi ultimi due gesuiti) e le due beatificazioni di Giovanni da Fiesole, frate predicatore e artista del Quattrocento, meglio noto come Beato Angelico, e di Margherita Ebner, religiosa domenicana e mistica tedesca del Trecento. Ricorre ancora meno all’equipollenza Benedetto XVI: una sola volta, nel suo ultimo anno di pontificato, con il decreto del 10 maggio 2012 con il quale canonizza Ildegarda di Bingen, religiosa e mistica tedesca del XII secolo.
Con Francesco la “fabbrica dei santi” si può dire tornata a pieno ritmo: 899 nuovi santi in soli 8 anni di pontificato, fra i quali ben 7 con canonizzazione equipollente (più una beatificazione). Nel 2013, a pochi mesi dall’inizio del suo pontificato, Francesco decreta la santità di Angela da Foligno e Pietro Favre, rispettivamente una mistica laica vissuta nel Duecento e un sacerdote professo della Compagnia di Gesù del Cinquecento. Passano pochi mesi, e nel 2014 un nuovo decreto sancisce la santità di Giuseppe de Anchieta (1534-1597), sacerdote professo della Compagnia di Gesù, di Maria dell’Incarnazione Guyart (1599-1672), fondatrice delle Orsoline del Canada, e di Francesco de Montmorency-Laval (1623-1708), primo vescovo di Québec. Seguono nel 2019 Bartolomeo Fernandes dei Martiri (1514-1590), arcivescovo di Braga, e pochi giorni fa Margherita di Città di Castello (1287-1320), vergine laica del Terz’Ordine Secolare dei Domenicani, la cui devozione è particolarmente sentita, oltre che in Umbria, negli Stati Uniti.
Se si attinge ancora ai secoli precedenti, il modello di attualità proposto per la Chiesa da papa Francesco è chiaro. «La Folignate è considerata modello di un nuovo modo di rapportarsi a Dio e di parlare di lui, facendo una teologia basata sulla Parola di Dio, sull’obbedienza alla Chiesa, sull’esperienza diretta del divino nelle sue manifestazioni più intime», si legge nel decreto di canonizzazione, ma è anche «una donna […], diventata madre spirituale di molti chierici, valorizza la figura e la missione femminile». Di Favre, per lui fonte d’ispirazione, il Papa ricorda «il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce». Di Giuseppe de Anchieta e Francesco de Montmorency-Laval, entrambi legati ai Gesuiti, e di Maria dell’Incarnazione Guyart papa Francesco ricorda la forte vocazione missionaria, l’orientamento verso una Chiesa “in uscita”, l’amore per gli abitanti delle periferie geografiche ed esistenziali, la vita semplice, a tratti dura. Di Bartolomeo dei Martiri, frate predicatore e poi arcivescovo, protagonista del Concilio di Trento, si sottolinea l’attenzione per la formazione del clero e del popolo e il suo essere «arcivescovo santo, padre dei poveri e degli infermi».
Infermi come la nuova santa Margherita di Città di Castello, impedita sin dalla nascita da cecità e gravi deformità, purtroppo spesso edulcorate nell’iconografia, ma nondimeno con un’intelligenza spiccata e una fede profonda. “Disabile” e “inferma” sono definizioni che mal si adattano a Margherita, che pure sperimenta il rifiuto e l’emarginazione. Vissuta prima nella casa dei genitori e poi in convento, un particolare sul quale tutte le agiografie concordano è che da questa comunità Margherita è allontanata perché divenuta pietra di scandalo e d’inciampo per le religiose, scomoda a causa delle sue parole e del suo esempio di santità. Accolta prima da una coppia di benefattori e poi fra le Terziarie domenicane, dopo la sua morte, a soli 33 anni, Margherita è riconosciuta dalla città come una santa, in guarigioni miracolose e vicinanza ai sofferenti: cieca educa alla fede, rafforza nella speranza, visita e consola carcerati e malati. «L’infermità non le impedì di vivere una eccezionale e feconda maternità spirituale, che anche oggi richiama l’importanza del prendersi cura degli altri. Inoltre, può essere un forte richiamo di speranza per ogni situazione di emarginazione e sofferenza», si legge nel decreto del 24 aprile scorso. Davvero la santità è per tutti, tranne che per i supereroi. O, almeno, per chi si crede tale.
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