Nonostante la devozione popolare a santa Cecilia sia attestata da secoli – almeno dall’epoca alto-medievale – molti dei dettagli della vita e del martirio della giovane aristocratica, vergine e cristiana, sfuggono all’analisi storica.
L’agiografia ci narra della sua verginità, del suo essere stata data in sposa contro la sua volontà ad un pagano, Valeriano, lo stesso che, vinto dal modello di fede della giovane sposa-vergine, si convertirà al Cristianesimo. Battezzato da papa Urbano I (222-230), anche Valeriano (insieme al fratello Tiburzio, anch’egli convertitosi al Cristianesimo), come e prima di Cecilia, andrà incontro al martirio, a Roma, forse il 14 aprile del 229, per decisione del prefetto Almachio, nel periodo delle persecuzioni anticristiane occorse durante l’impero di Alessandro Severo (222-235).
Come talvolta accade con santi e sante di età paleocristiana – tanto popolari nella devozione quanto aventi incerti contorni storici – è complicato porre un netto confine fra storia e leggenda agiografica. Per le informazioni sulla vita di santa Cecilia ci si è storicamente affidati alla Passio Sanctae Caeciliae, anonima cronaca della vita della santa redatta probabilmente fra il V e il VI secolo, base per successive elaborazioni agiografiche, in particolare della celebre ed intensa Legenda aurea di Jacopo da Varagine (Varazze), vero classico della spiritualità della seconda metà del Duecento.
Sepolta originariamente nelle catacombe di San Callisto (ove le sue reliquie riposarono fino alla traslazione nella chiesa trasteverina a lei intitolata, nell’anno 821 su impulso di papa Pasquale I), il nome di questa «santa tutta romana» (papa Giovanni Paolo II, omelia del 22 novembre 1984) è venerato «fin dal periodo delle persecuzioni, è stato incluso nel Canone romano della santa messa, è ricordato in molteplici documenti e repertori che riguardano la storia, l’arte, l’architettura, la liturgia, la leggenda». Un’inclusione, quella nel Canone romano, a cui si deve anche la straordinaria fortuna della sua devozione e la nascita di uno degli “errori agiografici” più reiterati della storia della Chiesa, che fece di santa Cecilia la patrona della musica.
Un esplicito collegamento fra santa Cecilia, musica e canto è documentato a partire dal tardo medioevo. Se a lungo la spiegazione più plausibile alla nascita di questo inatteso accostamento venne ritenuta una errata interpretazione di un brano della Passio, si ritiene oggi che l’errore abbia avuto invece per oggetto un passo dell’antifona di ingresso della messa nella festa della santa.
In particolare, ove il testo latino recita Cantantibus organis, Cecilia virgo in corde suo soli Domino decantabat dicens: fiat Domine cor meum et corpus meum inmaculatum ut non confundar («Mentre suonavano gli strumenti (musicali?), la vergine Cecilia cantava nel suo cuore soltanto per il Signore, dicendo: Signore, il mio cuore e il mio corpo siano immacolati affinché io non sia confusa»), si vide descritto il banchetto di nozze di Cecilia: mentre gli strumenti musicali di quelle nozze profane e forzate suonavano, nel suo cuore la “ribelle” Cecilia cantava a Dio. Lo scivolamento verso un’interpretazione più articolata – e ancora più travisata – fu quasi scontato: se Cecilia cantava a Dio, l’accompagnamento non poteva che essere la musica di un organo.
L’arte fece il resto. Dalla seconda metà del XIV secolo, prevalentemente nell’ambito del tardo gotico e del gotico “cortese”, l’iconografia di santa Cecilia reca quasi immancabilmente la presenza di un piccolo organo portativo (nell’immagine: Raffaello Sanzio e aiuti, Estasi di santa Cecilia, 1514 circa, Bologna, Pinacoteca Nazionale).
In realtà i codici più antichi mostrano come nell’antifona non figurino né l’aulico cantantibus né il sinonimo canentibus, bensì un più prosaico ed inquietante Candentibus organis: gli “organi” sarebbero quindi “strumenti” tutt’altro che musicali e nuziali, bensì gli «incandescenti strumenti» di tortura con i quali a Cecilia venne dato il martirio.
L’immagine, però, era creata, e se nell’Ottocento nacque il Movimento Ceciliano, col fine di contrastare la diffusione (oggi tutt’altro che sopita) di melodramma e musica popolare nella liturgia a svantaggio della dignità della musica liturgica, nei secoli sotto il nome di santa Cecilia sorsero scuole (di musica) e associazioni. Lo scivolamento di significato, ben più che meramente semantico, è ancora oggi predominante.
Se originariamente, infatti, il “canto” di santa Cecilia venne inteso teologicamente, unito al suo essere vergine, caecilia et audiens (capace cioè di vedere e di sentire ciò che altri non possono), a questo subentrò l’immagine di una “santa musicista”, che suona essa stessa strumenti musicali. Come dire: da “figura musicale” della teologia a figura emblematica delle corti del tardo medioevo e della successiva età moderna. Un’interpretazione cui l’opera di Raffaello, espressa soprattutto nell’Estasi di santa Cecilia, conferì definitivo sigillo, legandola ai pontificati di Giulio II (1503-1513) e soprattutto di Leone X (1513-1521), per il quale il grande artista urbinate fu pittore, architetto, studioso e soprintendente delle cose antiche, nonché riscopritore di modi decorativi ispirati alla Domus Aurea neroniana, ripescata in quegli anni dall’oblio nel quale era stata sepolta.
Nell’immagine: Jacques Blanchard, Santa Cecilia, prima metà del XVII secolo, San Pietroburgo, Museo statale Ermitage.
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