Molto prima del recente dibattito sul clero indigeno sposato, in Messico il celibato sacerdotale fu al centro di uno scontro ben più sanguinario. Cresce intanto l’attesa per l’omelia di papa Francesco da San Cristóbal de Las Casas.
Negli scorsi mesi si è tornati a parlare della vicenda del clero indigeno sposato nella diocesi messicana di San Cristóbal de Las Casas, che figura fra le tappe del prossimo viaggio di papa Francesco nel Paese centroamericano. Durante il lungo episcopato di Samuel Ruiz García, dal 1959 al 2000, infatti, la diocesi di San Cristóbal fu guardata a livello internazionale per il tentativo di creare una porzione di clero indigeno sposato con il quale sopperire alla carenza di ministri ordinati. Per raggiungere questo obiettivo, negli anni si procedette all’ordinazione di un nutrito numero di diaconi indigeni già sposati, che ci si attendeva potessero un giorno essere ordinati sacerdoti.
La soluzione incontrò però il parere negativo di Giovanni Paolo II e nel 2000, anno in cui a San Cristóbal de Las Casas al vescovo Ruiz García subentrò il vescovo Felipe Arizmendi Esquivel, alla diocesi giunse la proibizione di ordinare altri diaconi, revocata soltanto nel maggio 2014, a progetto ormai abbandonato. Nel 2014 nella diocesi di San Cristóbal de Las Casas figuravano ancora 316 diaconi permanenti contro 67 sacerdoti diocesani e 41 sacerdoti religiosi. I sacerdoti – celibi – risultano in crescita.
A poche ore dall’inizio del viaggio di papa Francesco in Messico, che il 15 febbraio lo condurrà anche nella diocesi di San Cristóbal de Las Casas, si è tornati a fare memoria, sebbene piuttosto in sordina, anche della rivolta dei cosiddetti cristeros. Erano gli anni Venti del Novecento e i gravi attriti fra le autorità governative messicane – in gran parte governi fantoccio alle dipendenze degli Stati Uniti – i cattolici del Paese e la Santa Sede erano ancora lontani da una soluzione.
Nel giugno del 1926, con la Legge di Riforma del Codice Penale, nota come Legge Calles, e con altri provvedimenti normativi di eguale spirito, il presidente Plutarco Elías Calles imponeva al Messico una legislazione marcatamente anticattolica, applicando con sempre maggior rigore quanto già contenuto nella Costituzione del 1917. Insieme alle leggi si inasprirono anche gli animi. I cattolici messicani, in accordo con il Vaticano, adottarono dapprima forme di protesta non violente, ma né queste né la sospensione del culto pubblico nel Paese, dall’agosto del 1926, sembrarono smuovere il governo messicano. Nella seconda metà dell’anno scoppiarono rivolte armate in tutto il Paese, che in breve tempo misero in difficoltà l’esercito regolare. Era l’inizio della Cristiada combattuta dai ribelli cattolici sollevatisi contro le autorità, spregiativamente soprannominati cristeros a motivo del grido di battaglia che li contraddistingueva, ¡Viva Cristo Rey!.
Nonostante gli impegni presi dal governo e il miraggio di una effimera distensione, i provvedimenti legislativi anticlericali e cesaropapisti – frutto di «superbia e demenza», secondo le parole di Pio XI (Iniquis afflictisque, 18 novembre 1926) – parvero moltiplicarsi e sul finire del decennio ad essi si aggiunsero nei diversi Stati messicani norme che ponevano sempre maggiori vincoli a credenti e consacrati. Fu questo il caso delle leggi approvate in Tabasco durante il governatorato di Tomás Garrido Canabal.
Nativo di Catazajá, in Chiapas, anticlericale e anticattolico radicale, Canabal appoggiò le persecuzioni promosse dal presidente Calles e ne attuò di proprie. Sradicare la fede dai territori posti sotto il suo controllo ben presto divenne per Garrido un’ossessione. Ordinò l’assassinio di numerosi sacerdoti e la chiusura delle chiese del Tabasco, vietò l’abito talare, i libri che menzionavano Dio e l’uso di croci sopra le tombe; sostituì le feste religiose con celebrazioni regionali e cambiò le denominazioni di città e villaggi che contenevano nomi di santi; obbligò, infine, i sacerdoti a sposarsi. Quest’ultimo provvedimento fu perseguito con particolare energia e tutti i sacerdoti che si rifiutarono di contrarre matrimonio furono dichiarati fuorilegge.
Nello stesso periodo, una Ley de Prevención Social approvata in Chiapas «contro pazzi, degenerati, tossicomani, ebbri e vagabondi», dispose che potevano «essere considerati malviventi e sottoposti a misure di sicurezza, come la reclusione in sanatori, prigioni, lavori forzati», insieme a mendicanti di professione e prostitute, anche «i sacerdoti che esercitano senza autorizzazione legale, le persone che celebrano cerimonie religiose in luoghi pubblici o che insegnano dogmi religiosi ai bambini, gli omosessuali, i fabbricanti e i venditori di feticci e stampe religiose, così come i venditori di libri, opuscoli e stampe attraverso i quali si pretendano inculcare pregiudizi religiosi». Che il celibato sacerdotale fosse indicato come un problema per il Messico non era cosa nuova. Quasi un secolo prima della Cristiada, nel suo Viaggio al Messico, alla Nuova Granata ed al Perú: ossia Saggio politico sul Regno della Nuova Spagna, Alexander von Humboldt, naturalista, esploratore e botanico tedesco, individuava fra le cause della «gran mortalità e poche nascite» di Città del Messico anche i conventi e il celibato del clero secolare (pp. 99-100).
La guerra segnò profondamente il Messico – si calcola che in essa persero la vita fra le 70mila e le 85mila persone – e la Chiesa. Il tentativo del presidente Callas di creare una Chiesa cattolica apostolica messicana, in separazione da Roma e guidata dal sacerdote dissidente José Joaquín Pérez Budar, non ebbe particolare successo. Tra il 1926 e il 1938 gran parte dei sacerdoti messicani furono uccisi o costretti a lasciare il Paese. Nel 1934 nell’intero Messico erano ufficialmente ammessi ad officiare soltanto 334 sacerdoti, legittimati da altrettante licenze statali, per una popolazione di circa 15 milioni di fedeli.
Di celibato sacerdotale si è parlato anche nel recente convegno svoltosi dal 4 al 6 febbraio alla Pontificia università Gregoriana. Il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, a conclusione dei lavori, nel ribadire come «il celibato è una vocazione che nella Chiesa Latina è considerata specialmente conveniente per coloro che sono chiamati al ministero sacerdotale», per «far sì che il Popolo di Dio abbia sempre pastori radicalmente liberi dal rischio della corruzione e dell’imborghesimento», non ha mancato di ricordare come «la scelta celibataria non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio», come è reso evidente guardando «alla prassi della Chiesa primitiva e alla tradizione delle Chiese orientali», nonché alle eccezioni permesse dalla Chiesa nel corso della sua storia, non ultime quelle dei pastori luterani, calvinisti o anglicani sposati che, accolti nella Chiesa cattolica, hanno ottenuto una dispensa per ricevere il sacramento dell’ordine, sin dal pontificato di Pio XII, nel 1951.
Nella stessa occasione non è mancato un riferimento ad alcune situazioni presenti, fra le quali non è difficile riconoscere anche alcuni contesti dell’America centrale e meridionale. «Nella situazione attuale, poi, viene spesso evidenziata, specialmente in alcune aree geografiche, una sorta di “emergenza sacramentale”, causata dalla mancanza di sacerdoti. Ciò ha suscitato da più parti la domanda circa l’eventualità di ordinare i cosiddetti viri probati. Se la problematica non pare irrilevante, occorre certamente non prendere soluzioni affrettate e solo sulla base delle urgenze», ha concluso il card. Parolin. Nel frattempo, cresce l’attesa per l’omelia che papa Francesco pronuncerà lunedì 15 febbraio da San Cristóbal de Las Casas, in occasione della Messa mattutina prevista con le comunità indigene del Chiapas, nel Centro sportivo municipale.
Nella fotografia: il martirio di padre Miguel Agustín Pro, fucilato durante la Cristiada a causa della sua attività pastorale. Città del Messico, 23 novembre 1927. Padre Pro è stato beatificato da papa Giovanni Paolo II il 25 settembre 1988.
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