Complici le politiche adottate dal governo – espressione, va detto, di un sentire comune fra molti cittadini italiani – nelle ultime settimane il confronto sui temi dell’immigrazione sembra essersi radicalizzato. In prima linea anche la Chiesa, sempre più spesso oggetto di critiche da parte degli irriducibili del respingimento. Che, da parte sua, ricorda le opere messe in campo a favore dei migranti. Ma non basta.
Sono passate poche settimane dalle dure reazioni suscitate dal tweet del card. Gianfranco Ravasi, “Ero straniero e non mi avete accolto”. E ancora meno dalle provocazioni rivolte alla Santa Sede e ad un crescente numero di sacerdoti circa l’opportunità di accogliere i migranti “a casa propria”, vale a dire indifferentemente in parrocchia o in appartamento, alle quali ha recentemente replicato anche il segretario uscente della Conferenza episcopale italiana, mons. Nunzio Galantino.
Uno stimolo che sarebbe prezioso e – per certi versi – legittimo e che proviene anche dai fedeli, ma dietro al quale troppo spesso non c’è una reale volontà fattiva, quanto piuttosto il desiderio di mettere la Chiesa all’angolo, denunciandone le incoerenze, reali o presunte che siano.
Una buona occasione, allora, per ricordare l’insostituibile ruolo sociale svolto dalla Chiesa cattolica anche in tema di migrazioni. E infatti negli ultimi giorni lo hanno fatto in molti, non da ultimo lo scorso 12 luglio il giornalista Paolo Lambruschi, che dalle pagine di Avvenire ha provato a riannodare i fili di un’azione spesso sottovalutata, se non addirittura incompresa.
Ma nell’opera della Chiesa c’è di più rispetto a quanto riferito dalla pressoché totalità delle cronache. La pur lodevole azione ecclesiale, infatti, non può essere circoscritta al solo piano materiale. Che è certamente il più immediato, anche e soprattutto nella percezione dell’opinione pubblica, ma che non è – e nella Chiesa non potrebbe essere – il solo. E con un’immigrazione che da decenni ha ormai superato una natura emergenziale per divenire un fenomeno strutturale, anche non il più importante.
Ben più significativa – ed insieme ignorata – appare, infatti, l’opera pastorale portata avanti dalla Chiesa anche nei confronti dei migranti. Verso i tanti approdati sulle coste del nostro Paese, ma anche e soprattutto verso quanti non vi sono giunti attraverso il Mediterraneo. Far coincidere l’immigrazione con i soli profughi e richiedenti asilo è, infatti, un grave errore, che rischia di far dimenticare i flussi invisibili, ma non per questo meno significativi, di quanti non giungono in Italia con i “barconi”. Non migranti di serie A o di serie B, ma semplicemente uomini e donne con origini, storie di vita e aspirazioni diverse. Migranti che, se da un lato siamo forse portati ad accogliere con meno difficoltà, nondimeno rischiano di andare incontro ad un’indifferenza e a discriminazioni ancora peggiori.
Le stime ci dicono che molti di loro – la maggioranza di loro – sono cristiani. La Fondazione ISMU li conta ad inizio 2017 in oltre 2,9 milioni sui 5 milioni di stranieri regolarmente residenti in Italia. Fra loro, gli ortodossi si confermano i più numerosi (oltre 1,6 milioni, +0,7%), seguiti dai cattolici (poco più di un milione, -0,1%). Fra i due gruppi si collocano i musulmani (poco più di 1,4 milioni, -0,2%). Sebbene le stime non includano gli stranieri non iscritti all’anagrafe, lo studio contraddice il diffuso luogo comune che vorrebbe tutti gli immigrati, o almeno la maggioranza di loro, appartenenti all’islam.
Va da sé come un tale scenario rappresenti una sfida per la Chiesa, spesso mal compresa anche al suo stesso interno. Milioni di fedeli, in gran parte provenienti dalle giovani Chiese, che portano con sé valori, tradizioni e differenti modi di vivere la pur comune fede cattolica. Una ricchezza che in cambio chiede solo attente (e doverose) cure pastorali.
È quanto fa la Chiesa in Italia attraverso propri organismi, primo fra tutti la Fondazione Migrantes, unendo l’invio di sacerdoti fra le comunità italiane all’estero e il coordinamento di cappellani al servizio delle comunità etniche in Italia, l’attenzione pastorale verso rom, sinti, circensi e addetti allo spettacolo viaggiante, nonché la ricerca e lo studio dei diversi fenomeni della mobilità in Italia.
Allargare la riflessione sulle migrazioni al piano umano e pastorale, sottraendola al solo ambito economico e politico, sarebbe non soltanto un debito saldato nei confronti della realtà, ma potrebbe anche rappresentare un terreno di apertura e di possibile dialogo con gli irriducibili del respingimento, che sempre più spesso puntano ad ammantarsi di poco coerenti religiosità. Senza dimenticare che l’impegno missionario e di evangelizzazione potrebbe finalmente rivolgersi anche alle persone che professano altre religioni, a partire dalla dimensione parrocchiale e diocesana, nell’ottica di una missio ad gentes venuta a noi, “segno” anche questo dei nostri tempi.
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