Le luci sospese lungo le strade, i colori sgargianti della carta regalo, le musiche e i profumi insistenti dei negozi. Distratti dal ritmo del consumismo e dalla tenerezza atea delle festività, corriamo il rischio di ridurre il Natale ad una fiera di buoni intenti. Anche ogni avvertimento in tal senso, però, rischia di trasformarsi ormai in un esercizio di stile o di retorica se perde il legame con Dio e con l’uomo. Il Natale, invece, è la memoria di questa profonda relazione: Dio che si fa uomo, incarnandosi.
Preziosa, una volta di più, si rivela la Chiesa delle origini. Non tanto quella verbosamente evocata dei sacerdoti sposati o del (tutto ipotetico) sacerdozio femminile, ma quella dei martiri. Basta uno sguardo al calendario. Per una singolare coincidenza, che tale non è, nei primi quattro giorni dopo il Natale si celebrano santi che costituiscono a buon titolo un bilancio dell’anno che si va concludendo. Se non addirittura del nostro tempo.
Ad aprire i quattro giorni, il 26 dicembre, è santo Stefano, forse il riferimento più immediato al martirio nelle omelie post-natalizie. Primo cristiano ad aver dato la vita per testimoniare la propria fede in Cristo di cui si abbia memoria, il suo sacrificio è l’emblema stesso di ogni martirio. Primo fra i diaconi scelti dalla comunità cristiana, tanto «pieno di Spirito Santo» da risultare incontenibile anche di fronte alla violenza dei suoi accusatori, negli occhi di Stefano rivolti alla gloria di Dio in cielo c’è anche uno sguardo profetico al valore della carità. Nei Paesi anglosassoni il 29 dicembre è ricordato come il boxing day, giorno che la tradizione voleva dedicato ai doni e all’elemosina ai poveri, ma che sempre più spesso è oggi associato all’inizio dei saldi. «Essere responsabili per qualcuno, amare qualcuno, significa dargli tempo. Così, è evidente che far nascere un essere umano è precisamente l’atto di donazione del tempo. Ma anche dare ascolto a un altro è dargli tempo. Analogamente, perdonare significa dare all’altro il tempo di rinnovarsi, non incastrarlo identificandolo nel male che può aver fatto», scrive Roberto Mancini nel suo Il senso del tempo e il suo mistero (Pazzini Editore, Villa Verucchio, 2005). Un coraggio dell’amore che, al tempo di Stefano, fu in grado di seminare anche la futura conversione di Paolo di Tarso.
Il santo ricordato il giorno successivo, 27 dicembre, è un “martire” sui generis, e forse proprio per questo ancora più vicino al nostro tempo: Giovanni evangelista. Il prediletto di Gesù fra gli apostoli costituisce, infatti, un caso particolare, poiché la tradizione lo indica come l’unico fra essi morto per cause naturali. Esiste, però, un’antica tradizione secondo la quale Giovanni avrebbe subito almeno un tentativo di martirio a Roma. Si leggeva, infatti, nel Martirologio tradizionale al 6 maggio: «A Roma san Giovanni, Apostolo ed Evangelista, avanti la Porta Latina, il quale, per ordine di Domiziano, da Efeso fu tradotto legato a Roma, e, per sentenza del Senato, avanti la detta Porta gettato in una caldaia di olio bollente, ne uscì più sano e gagliardo di prima». La storia ne colloca, invece, la morte a Efeso, sotto l’impero di Traiano, forse nel 98-99 d.C., dopo l’esilio a Patmo. Proprio questa difficile fase della vita di Giovanni lo accosta al martirio quotidiano, feriale, di molti santi moderni, che inaspettatamente condividono con noi il posto di lavoro, la via di casa o la nostra stessa tavola. Testimoni, come ha ricordato papa Francesco nel recente viaggio apostolico in Giappone, di una «cultura capace di proteggere e difendere sempre ogni vita, attraverso il “martirio” del servizio quotidiano e silenzioso verso tutti, specialmente i più bisognosi». In fondo, lo aveva preannunciato lo stesso Cristo: «Voi certo berrete il mio calice» (Mt 20,23).
Il 28 dicembre è la volta dei Santi Innocenti. L’accostamento alla protezione della vita nascente è di certo calzante, ma allargare lo sguardo a tutta la vita – a tutte le vite – è un atto in grado di aprire nuove prospettive: verso le donne gestanti, i malati, gli anziani, i migranti, gli scartati. Di questi ultimi si è a lungo parlato negli ultimi mesi, per lo più attingendo alla cultura giapponese: hikikomori, la scelta dei giovani di isolarsi dal mondo fino ai casi estremi di suicidio (nel solo Giappone si stima che siano circa 500 mila i giovani a soffrirne) e kodokushi, la “morte solitaria”, la scelta degli adulti di recludersi nella propria abitazione fino a lasciarsi morire. Morire piuttosto che subire l’umiliazione di chiedere aiuto. Aggiungere alla difesa della vita nuove battaglie e aprirla nuovi orizzonti di verità esige un’attenzione anche ai contesti educativi, sempre più insidiati da ideologie che vorrebbero uomini e donne come individui (e individualisti) privi di genere, né maschi né femmine, ma anche né adulti né bambini. Fra le conseguenze delle pornografizzazione della società, si annovera anche la crescente violenza su fanciulli e adolescenti. Che quando ha per carnefici supposti “uomini di Dio” chiama in causa Dio stesso. Una presenza – o una presunta assenza – di Dio che sono, però, entrambe da escludere: crimini nella Chiesa ma non della Chiesa, si scriveva all’inizio dell’anno in queste pagine, fatti tragicamente presenti nella Chiesa ma di certo non appartenenti alla sua natura.
A chiudere i quattro giorni che rischiano – è il rischio della speranza – di guastare festività natalizie fin troppo prive di accenti e di memoria è san Tommaso Becket, celebrato il 29 dicembre. Lord cancelliere del Regno d’Inghilterra dal 1154, arcivescovo di Canterbury e primate d’Inghilterra dal 1162, Becket visse in prima persona e fino alle estreme conseguenze i difficili anni del conflitto tra la monarchia inglese e la Chiesa di Roma. Ostile ai propositi di Enrico II di subordinare la Chiesa ai “costumi del regno”, l’arcivescovo fu brutalmente assassinato il 29 dicembre 1170 per mano di quattro cavalieri del sovrano. Non è nato santo, Tommaso. Entrambe le sue brillanti carriere, quella politica e quell’ecclesiastica, pongono all’uomo serie tentazioni. A ricordarle, anche Assassinio nella cattedrale, il dramma teatrale composto da Thomas S. Eliot nel 1935: gli agi della vita privata, il potere politico, il gioco della congiura e dei tradimenti (il clericalismo, direbbe forse Francesco), fino alla stessa seduzione dell’estremo sacrificio di sé, del «compiere l’azione giusta ma per la ragione sbagliata». Ben altro è, invece, il senso che Becket dà al martirio. «Un martirio cristiano non è un caso, né mai disegno è d’uomo. Vero martire è quel che non desidera più nulla per sé, neppur la gloria del martirio: è quello che strumento è divenuto di Dio, che nella volontà di Dio, nella sottomissione a Dio soltanto ha trovato la vera libertà». Figlia, quest’ultima, della coscienza e della coerenza, pietra di scandalo per chi è pronto a svenderle.
In una sua poesia del 1925, Uomini vuoti, lo stesso Eliot descrive la fine del mondo: non con un’esplosione, bensì con un piagnucolio. È lo stile della persecuzione anticristiana in Occidente: non la schietta violenza di quella fascia della morte che si estende dalla Nigeria alla Cina, così come è tracciata nell’ultimo Rapporto sulla libertà religiosa di Aiuto alla Chiesa che Soffre, ma piuttosto la subdola ostilità ideologica dei moderni totalitarismi dell’Occidente democratico. Presente anche in Italia, Stato laico che «riconosce il valore delle religioni e tutela la libertà di fede e il pluralismo religioso», ma dove «la comunità cattolica ha più volte espresso inquietudine riguardo al diffuso sentimento anticlericale e alla promozione di valori anticristiani. I cattolici sono spesso criticati quando esprimono pubblicamente le loro opinioni su questioni di interesse sociale ed etico come l’aborto, il matrimonio gay e l’eutanasia». Non nei fuochi d’artificio che ci accompagneranno anche in questa fine d’anno, ma nell’indifferenza, finirà il mondo. Indifferenza per la vita, per il creato e per la nostra stessa umanità.
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