Quando nei rapporti internazionali è tutto “giusto”

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Dalla guerra giusta alla pace giusta, passando per un giusto risarcimento che sa di speculazione miliardaria. Tutto “giusto”. Più o meno.

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A tre anni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina (24 febbraio 2022) e a undici dalla cacciata di Janukovyč e dall’avvio del conflitto in Crimea (20 febbraio 2014), quella che era iniziata come una guerra dai tratti eroici si è rivelata quell’abboccamento da faccendieri che probabilmente è sempre stata per alcuni dei suoi protagonisti.

«Stiamo chiedendo terre rare e petrolio, tutto ciò che possiamo ottenere. Ci riprenderemo i nostri soldi, perché non è giusto», denuncia il presidente Donald Trump alla conferenza che raduna a Washington i (cosiddetti) conservatori di mezzo mondo, e di un mondo a metà. «La mia speranza è che la mia più grande eredità sia quella di essere un pacificatore, non un conquistatore». Tuttalpiù, un uomo d’affari.

Giusto epilogo di una guerra giusta. Tale è stato fin dall’inizio l’aggettivo attribuito alla difesa armata nel conflitto scatenato dalla Russia in Ucraina: uno scontro dalle implicazioni ben più profonde di quelle belliche, dove a confliggere non sono soltanto due Stati, bensì due modi contrapposti di intendere i rapporti internazionali, la politica interna e, in ultima analisi, la natura della civiltà. Ma che non si evochino, per giustizia, i contrapposti interessi delle parti in campo.

In una “guerra giusta” come quella combattuta dall’Ucraina – e da Stati Uniti e Unione Europea – non c’è ragione che possa giustificare un’alternativa alle armi. «I princìpi dello jus ad bellum (delle giuste ragioni per iniziare una guerra, ndr) appaiono insomma incontestabili», scrive Mario Del Pero, docente di Storia internazionale presso l’Institut d’études politiques – Sciences Po di Parigi. «Meno, forse, quelli della conduzione del conflitto – di uno jus in bello dove centrali sono la tutela delle vite dei civili, la discriminazione nel definire e colpire gli obiettivi militari e la proporzionalità tra gli scopi prefissati e i mezzi dispiegati. Nelle nebbie della guerra, di qualsiasi guerra, questi fondamentali princìpi diventano difficili tanto da rispettare quanto da verificare. Quando il conflitto terminerà, vi saranno le inevitabili indagini che potrebbero coinvolgere anche soggetti ucraini».

Se giusta è la guerra, giusto è che si concluda nel più giusto dei modi: con una pace giusta. Di “pace giusta” hanno parlato insistentemente gli Stati Uniti di Joe Biden, la Nato del fu segretario generale Jens Stoltenberg, l’Europa di Ursula von der Leyen e di una quantità di altre voci, per lo più in cerca di affermazione. Una melodia senza apparente via d’uscita.

Eppure, non sempre la pace è stata costruita sulla giustizia. Anzi, quasi mai. Fondamento ben più efficace, tanto nei rapporti fra le persone quanto fra gli Stati, si è dimostrato il perdono. Convivenza, certo, non connivenza. Un processo che mira a rimarginare ferite e a prevenire la perpetuazione del conflitto.

Per quanto imperfetto, orientato al perdono fu l’approccio della Commissione per la verità e la riconciliazione, il tribunale straordinario istituito nel 1995 in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid. E forse non è un caso che proprio sulle braci del Sudafrica, mai del tutto sopite, siano tornati di recente a soffiare gli aliti pestiferi della divisione.

Settantacinque anni dopo, è ancora una lezione di perdono fra popoli la Dichiarazione Schuman, atto fondativo di un’Europa che pensava se stessa come una comunità prima che un’unione. Un processo politico e morale, un invito a superare le rivalità storiche attraverso una cooperazione che andasse oltre la sola riconciliazione politica. L’idea che la Francia vittoriosa offrisse alla sconfitta Germania l’opportunità di lavorare ad un obiettivo comune – la gestione condivisa di quelle che oggi si direbbero “terre rare”, il carbone e l’acciaio – comportava un atto implicito di perdono, cioè la volontà di mettere da parte il rancore per il bene di una pace duratura.

Né giustificazione né amnesia, piuttosto il riconoscimento pragmatico del danno inflitto alla comunità mondiale e l’impegno a ricostruire le persone prima ancora degli edifici, facendo spazio a nuovi motivi di fiducia. Una collaborazione economica resa strumento di perdono collettivo, a dimostrazione che la partecipazione comunitaria può prevalere sui singoli interessi nazionalistici, a differenza degli affari.

“Cooperazione”, “solidarietà” e “futuro” sono state le parole che hanno messo fine ad un’epoca di guerre. “Giustizia”, “soldi” e “grandezza” assomigliano di più a quelle che vi avevano posto inizio.

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