Si celebrano i 1030 anni dalla conversione al Cristianesimo della vecchia Russia e Putin guarda alla nuova ancora in chiave cristiana. Cronaca di un disagio e del rischio di un doppio errore.
La ricorrenza, di per sé, ha già creato qualche confusione. I 1030 anni dal battesimo del principe Vladimir il Grande (o il Santo) nel fiume Dnepr? Non proprio. O almeno non solo, perché le cronache dicono Vladimir battezzato ancora prima, a Cherson, in Crimea. E forse anche in altre due occasioni. Nel 988, però, nelle acque del Dnepr furono battezzate in massa la famiglia reale e la popolazione di Kiev, in quel momento capitale della prima entità politica dell’Oriente slavo, progenitrice dell’attuale Russia. La conversione di un popolo. Anche, e per alcuni soprattutto, in chiave imperiale.
Chiesa ortodossa e Putin
Un appuntamento celebrato domenica dalle Chiese ortodosse di Russia, Ucraina e di altri Paesi un tempo compresi nella Grande Russia, ma che non poteva che trovare uno dei suoi protagonisti nel presidente russo Vladimir Putin, e non solo per ragioni di onomastica. «Il Battesimo della Rus è stato un importante punto di svolta nella nostra storia», ha ricordato Putin in occasione della liturgia patriarcale a Mosca, per la prima volta celebrata all’aperto, sulla Piazza della Cattedrale del Cremlino. «Un evento che ha accelerato la civiltà, trasformando la forza spirituale. Ha determinato l’ulteriore percorso secolare della Russia e ha influenzato lo sviluppo globale».
Spirito e politica
Nella scelta del principe Vladimir ci fu, secondo il Presidente russo, la consapevolezza che il Cristianesimo avrebbe costituito un «supporto morale, bellezza, luce della verità e della virtù, e una base per il rinnovamento, per una maggiore unità e comunità dei popoli dell’antica Rus». Una scelta, quindi, al tempo stesso spirituale e politica. Da un lato, «l’Ortodossia fece qualcosa che non era accaduto prima: si rivolse all’uomo, alla sua coscienza e alla sua anima con un’eterna chiamata di misericordia, così come di buona volontà e di amore». Dall’altro, «il Battesimo della Rus è stato il punto di partenza per lo sviluppo della statualità russa, la vera nascita spirituale dei nostri antenati, la definizione della loro identità, l’apogeo della cultura nazionale e dell’istruzione, così come lo sviluppo di legami multiformi con altri Paesi».
Paolo VI o Irlanda?
A Putin non sfugge, infatti, il ruolo di collante sociale esercitato dalla religione, in Russia così come in numerose altre nazioni al mondo. Fra di esse l’Irlanda, che da secoli fa del Cattolicesimo un tratto imprescindibile della propria identità. Con tutti i rischi del caso, primo fra tutti quello di ridurre il Cristianesimo a fatto culturale, snaturandolo e indebolendolo. Anche e soprattutto di fronte agli inevitabili scandali del mondo. Bene lo aveva compreso Paolo VI, che nella Evangelii nuntiandi ricorda le due facce del rapporto fra Vangelo e culture. «Il Vangelo, e quindi l’evangelizzazione, non si identificano certo con la cultura, e sono indipendenti rispetto a tutte le culture. Tuttavia il Regno, che il Vangelo annuncia, è vissuto da uomini profondamente legati a una cultura, e la costruzione del Regno non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane. Indipendenti di fronte alle culture, il Vangelo e l’evangelizzazione non sono necessariamente incompatibili con esse, ma capaci di impregnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna».
Giovanni Paolo II
Vale a dire una sana distinzione, ma senza cadere nell’errore opposto, pretendendo di scorgere in ogni riaffermazione delle radici cristiane della Russia o dell’Europa l’abbandono ad un nostalgico nazionalismo o ad un riesumato – è la cronaca giornalistica di queste ore – sovranismo. Questione di realismo e di storia, prima ancora che di politica e di attualità. «L’Europa ha bisogno di Cristo! Bisogna entrare a contatto con Lui, appropriarsi del suo messaggio, del suo amore, della sua vita, del suo perdono, delle sue certezze eterne ed esaltanti!», sottolineava nel 1981 Giovanni Paolo II in un appassionato discorso sulle comuni radici cristiane delle nazioni europee. «Ci troviamo in un’Europa in cui si fa più forte la tentazione dell’ateismo e dello scetticismo; in cui alligna una penosa incertezza morale, con la disgregazione della famiglia e la degenerazione dei costumi; in cui domina un pericoloso conflitto di idee e di movimenti. La crisi della civiltà (Huizinga) e il tramonto dell’Occidente (Spengler) vogliono soltanto significare l’estrema attualità e necessità di Cristo e del Vangelo».
L’Italia
Senza strumentalizzazioni, una ricetta valida anche per l’Italia. «Un’Italia fiduciosa di sé e internamente coesa – ricorda Wojtyła nel 2002 alla Camera – costituisce una grande ricchezza per le altre nazioni d’Europa e del mondo. Desidero condividere con voi questa convinzione nel momento in cui si stanno definendo i profili istituzionali dell’Unione Europea e sembra ormai alle porte il suo allargamento a molti Paesi dell’Europa centro-orientale, quasi a suggellare il superamento di una innaturale divisione. Coltivo la fiducia che, anche per merito dell’Italia, alle nuove fondamenta della “casa comune” europea non manchi il “cemento” di quella straordinaria eredità religiosa, culturale e civile che ha reso grande l’Europa nei secoli». Per non rischiare di gettare il bambino – anzi, il Bambino – con l’acqua sporca.
© La riproduzione integrale degli articoli richiede il consenso scritto dell'autore.