Il 16 dicembre 1942 Heinrich Himmler firma il “decreto Auschwitz”. È l’inizio del Porajmos, il “grande divoramento”, la deportazione di tutti gli zingari del Reich a Birkenau. Dimenticati dalla storia, sono ricordati nelle poesie e nell’arte. Come in quella del pittore e scultore tedesco Otto Pankok.
Ad Auschwitz avevano un marchio e un settore speciale, chiuso 16 mesi più tardi con la gassazione degli ultimi 4mila prigionieri che vi si trovavano. Al campo di sterminio ne vennero condotti a migliaia, con vagoni provenienti soprattutto dall’est Europa. È lo sterminio di Rom e Sinti perpetrato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Oltre 500mila morti, secondo recenti statistiche. Samudaripen, tutti morti. Ad essi vanno aggiunti quanti non si fecero riconoscere come zingari, quanti ai campi non arrivarono mai perché uccisi durante le incursioni della milizia nei campi nomadi e coloro che trovarono la morte nelle esecuzioni di massa che precedevano ogni registrazione. Dimenticati dalla storia, ma ricordati nelle poesie e nell’arte. Come in quella del pittore e scultore tedesco Otto Pankok.
Nato nel 1893 a Mülheim an der Ruhr, soldato in Francia durante la prima guerra mondiale, Pankok fu un membro dell'”altra Germania”, di quella riserva morale dell’infranta resistenza al nazismo che ebbe i suoi eroi e i suoi martiri. Durante il regime nazista la sua arte venne classificata fra quella degenerata, non rispondente al pensiero dominante. Come poteva essere altrimenti, quando i primi bambini che dipinse erano mezzi zingari?
Soggetti divenutigli sempre più cari nel tempo, fino a costituire un vero e proprio filone, Zigeuner, più di vita che d’arte. Chiaroscuri in gran parte datati 1933, che ritraggono le persone fra le quali Pankok era andato a vivere. Zingari. Sguardi profondi, nei quali Pankok dimostra di non dipingere per compassione o per semplice denuncia sociale. Se denuncia vi fu, riguardò anche il falso cristianesimo e il falso socialismo, emblemi della moderna ipocrisia. È l’opera del pittore che non si accontenta di offrire aiuto e riparo ai perseguitati, ma che ad essi dedica tutta la sua vita d’artista, la sua simpatia e la sua amicizia.
«Allorché io tornai in Germania dalla grande festa degli zingari di Francia a Saintes-Maries-de-la-Mer, trovai nella brughiera vicina alla città [di Düsseldorf, NdR] una strana colonia. I poveri e gli oppressi, coloro che sbarcavano il lunario con i sussidi di disoccupazione, si erano costruiti delle minuscole casette con vecchie tavole e pezzi di mattoni, così potevano risparmiare il costoso affitto. Grazie alla loro intensa laboriosità era sorto dal nulla un intero villaggio, con piccole strade, orti e giardini dai fiori prosperosi. C’era anche un piccolo negozio e, più tardi, perfino una chiesetta. Insomma: Heinefeld», riporta lo stesso Otto Pankok.
«L’amministrazione comunale avrebbe volentieri raso al suolo questa anarchica e irregolare comunità, che si estendeva accanto al monumento di Schlageter, intorno al quale già si organizzavano i primi raduni nazisti, ma c’erano ancora in Germania legalità e diritto e agli abitanti di Heinefeld, per una strana e paradossale circostanza, non si poteva far nulla. Qui infatti i francesi avevano costruito i depositi di munizioni e alla loro partenza si erano dimenticati di restituire il territorio alla città. Heinefeld, senza che i francesi lo sapessero, era rimasta territorio francese e i suoi abitanti poterono respingere con successo ogni intimidazione della polizia». È qui che Pankok si stabilì, nello stesso tugurio in cui razzolavano le galline, insieme agli zingari che per godere dei sussidi di disoccupazione si erano rassegnati a togliere le ruote ai carri, adattandosi al costume dell’immobilità.
«Si raccolsero lì e il grande viaggio attraverso i secoli ebbe per la prima volta una sosta. Chi avrebbe pensato, in quegli anni, che ciò sarebbe stato per tanti la fine del viaggio? Chi avrebbe pensato che dopo pochi anni degli individui in uniforme nera sarebbero penetrati nel villaggio per radunare a randellate i suoi abitanti e costringerli ad abbattere le loro case per fare spazio, presso la croce di Schlageter, a quella che chiamavano “una grande piazza d’armi per le solenni manifestazioni del regime”? Qui gli stivali delle SS cominciarono la loro opera di distruzione. Ancora prima che ardessero le sinagoghe, toccò alle famiglie degli zingari essere calcate come bestiame dietro alle siepi di filo spinato per dividere più tardi il destino degli ebrei nei campi di morte dell’est».
A Norimberga, tuttavia, gli zingari non furono presenti, né si parlò allora o in seguito della loro deportazione. Interrogato a proposito della scelta di utilizzare gli zingari come cavie, un medico francese, anch’esso deportato ad Auschwitz, ripose: «Tutti disprezzavano gli zingari, dai deportati alle SS. Chi volete che ancora oggi reclami uno zingaro?».
«Con profonda commozione e venerazione, mi inginocchio su quella terra che nasconde in sé le ceneri delle vittime del genocidio nazista, ricordando in maniera particolare la tragica sorte di Fratelli e Sorelle Zingari, prigionieri del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. L’ho fatto diverse volte quale Metropolita di Cracovia, oggi lo faccio come Papa», scriveva Giovanni Paolo II il 7 aprile 1993 in una lettera a mons. Tadeusz Rakoczy, vescovo di Bileko-Zywiec, in occasione del 50° anniversario del primo trasporto degli zingari ad Auschwitz-Birkenau.
«In questa occasione desidero pronunciare le parole di solidarietà cristiana verso tutto il popolo dei Rom – così dolorosamente provato durante la seconda guerra mondiale – popolo che, purtroppo, anche oggi, in vari Paesi, diventa oggetto di pregiudizi, di atti di intolleranza, nonché, addirittura, di palese discriminazione, pur possedendo un innegabile diritto ad un posto degno nella vita sociale e alla sua identità socio-culturale».
Nell’immagine: Otto Pankok, Papelon, 1932.
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