Pensare alla morte fa bene e salva dall’illusione di essere padroni del tempo. Lo ha ricordato il Papa. Un argomento caro a Francesco, oggi caduto nell’oblio ma un tempo radicato anche nell’arte.
«Pensa che ti guarda Dio. Pensa che ti sta guardando. Pensa che morirai e tu non sai quando». Questo leggeva – ha confidato lo stesso Francesco – il piccolo Jorge Mario Bergoglio sul comodino dell’amata nonna Rosa Vassallo. Non stupisce, allora, che quello della morte sia fra i temi meno considerati eppure ricorrenti del pontificato di Francesco.
«La morte è un fatto, la morte è un’eredità e la morte è una memoria», ha spiegato alcuni giorni fa il Pontefice nell’omelia della Messa mattutina a Casa Santa Marta, ispirato dalla morte di Davide narrata in un passo del Primo Libro dei Re. La morte è un fatto «che tocca a tutti. Più tardi, più presto, ma viene» e impedisce di fare troppo affidamento a false certezze di eternità materiale. La sua ineluttabilità porta a «domandarci quale eredità [lascerei] se Dio oggi mi chiamasse? Quale eredità io lascerò come testimonianza di vita?». Ne consegue una memoria anticipata, che conduce ad «illuminare con il fatto della morte le decisioni che io devo prendere ogni giorno. Quando io morirò, cosa mi sarebbe piaciuto fare oggi in questa decisione che io devo prendere oggi?».
Sul medesimo argomento Francesco si era soffermato nell’ottobre dello scorso anno. Allora il Papa aveva invitato i fedeli riuniti in occasione dell’udienza generale del mercoledì a riflettere sul grande mistero della morte. «Ognuno di noi pensi alla propria morte – aveva detto Francesco – e si immagini quel momento che avverrà, quando Gesù ci prenderà per mano e ci dirà: “Vieni, vieni con me, alzati”. Lì finirà la speranza e sarà la realtà, la realtà della vita». Non passano che poche settimane e il Pontefice torna su quanto la nostra civiltà moderna «tende sempre più a cancellare». E lo fa con parole che spiazzano il nostro comune sentire. Dobbiamo «pensare che la nostra vita avrà fine. E questo fa bene. Pensare alla morte non è una fantasia brutta, è una realtà. Se è brutta o non brutta dipende da me, come io la penso, ma che ci sarà, ci sarà».
Un dimensione ben presente alla società e all’arte dei secoli passati e che fa di Francesco un papa curiosamente tardo-medievale. E non solo per la sora nostra morte corporale di assisiate memoria. È nei lunghi mille anni dell’età di mezzo che si consuma, infatti, un passaggio epocale nel rapporto degli uomini – e dell’arte – con la morte. Abbandonate, infatti, le placide visioni del trapasso, sul finire del medioevo dalla Francia si diffonde al resto d’Europa un nuovo gusto nella scultura funeraria che fa delle rappresentazioni di crudo realismo il suo carattere predominante. Corone, mitrie e simboli di nobiltà cedono il passo a scheletri, sudari e carne putrefatta. In molti casi, per dare ancora maggiore forza espressiva alla transizione fra vita e morte (da qui la denominazione di transi per questo filone artistico) i monumenti funebri uniscono rappresentazioni di come il morto era stato in vita e di quanto il suo cadavere smascherasse la vanità di ogni potere terreno.
Ammonimento ed insieme espressione di quel gusto per il macabro comune nel tardo gotico, il transi si accompagna ad un generale recupero della riflessione sui quattro novissimi in un’epoca nella quale epidemie, guerre e carestie colpiscono duramente la popolazione europea.
Arte sacra o violenza espressiva? Non c’è dubbio che queste sculture, al pari delle parole del Papa, appaiano dissonanti ad una società come la nostra, impegnata da almeno un secolo a rimuovere la morte o tuttalpiù a metterla in posa in macabre esibizioni pseudo-scientifiche in grado di attrarre il grande pubblico. Paradossi di una società che non sa più come – e soprattutto perché – morire, e che pure inventa ogni giorno nuovi modi per farlo.
Nell’immagine: Tomba transi di Luigi XII di Francia e Anna di Bretagna (particolare), XVI secolo, Francia, Basilica di Saint-Denis.
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