Abusi sessuali nella Chiesa o della Chiesa? Di certo crimini che questa è chiamata ad affrontare con decisione, coraggio e schiettezza. Senza falsi pudori. Due voci per non ridurre tutto alle preposizioni.
Per alcuni pedofilia e pederastia – quest’ultima decisamente più diffusa – sarebbero problemi della Chiesa, da ricondurre magari al celibato. Per altri sarebbero invece un problema (anche) di omosessualità, che nulla ha a che fare con la Chiesa in quanto tale. Una posizione condivisibile, purché non serva ad allontanare o a relativizzare il problema. Che invece, per sua stessa natura, impone di essere affrontato con decisione, coraggio e schiettezza. Senza falsi pudori politically correct o schieramenti di parte.
Allo stato attuale della crisi, infatti, negare l’esistenza delle questioni pedofilia e pederastia all’interno della Chiesa sarebbe non soltanto criminale, ma anche ridicolo. Non meno importante, però, è inquadrare il fenomeno dalla giusta prospettiva. Un dovere nei confronti delle vittime e dei moltissimi sacerdoti del tutto estranei a queste vicende. Iniziando, ad esempio, con il rompere l’odiosa equiparazione fra “pedofili che sono preti” e “preti pedofili”, espressione, quest’ultima, predominante e che sembra avanzare una coincidenza fra l’appartenenza al clero cattolico e l’essere autori di crimini sessuali.
Una distinzione tornata d’attualità in questi giorni, dopo che sull’argomento è intervenuto il cardinale tedesco Walter Brandmüller, che in un’intervista rilasciata in occasione dei suoi 90 anni ha sottolineato come il dibattito pubblico sugli abusi sessuali nella Chiesa «dimentica o mette sotto silenzio il fatto che l’80% dei casi di aggressione sessuale nella Chiesa ha colpito giovani uomini e non bambini». Uno scenario – prosegue Bradmüller – che si accorda con il fatto che sarebbe «statisticamente provata» una correlazione fra omosessualità e abusi sessuali. Una correlazione, si badi, e non una totale coincidenza. «Il vero scandalo – ha precisato Bradmüller – è che la Chiesa cattolica non si è distinta dal resto della società».
Non può sfuggire che il card. Bradmüller sia fra le voci critiche nei confronti del pontificato di Francesco. A più riprese, ed anche in questo caso, le sue parole sono state condannate – o esaltate – come l’ennesima opposizione al Pontefice, perdendo in entrambi i casi gran parte della loro incisività. Ben diverso, comunque la si pensi, è il caso di mons. Santiago Agrelo Martinez, arcivescovo di Tangeri, in Marocco, strategica via di passaggio e di frontiera tra Africa ed Europa. Francescano, affezionato più all’appellativo di “fratel Santiago” che alle onorificenze episcopali, in prima linea sui temi dell’immigrazione, mons. Agrelo affronta il tema della pederastia nella Chiesa da una prospettiva poco comune, oltre che con invidiabile e sempre più rara misura.
«La verità è che questo tema mi provoca una montagna di sensazioni che a volte escono dal politicamente corretto», ha confessato mons. Agrelo in una recente intervista. «Non accetto che quando si parla di pederastia – prosegue l’Arcivescovo – si parli solo della Chiesa, come se fosse un problema solo della Chiesa. È un problema sociale che ha a che fare con la distruzione della famiglia. Porre la Chiesa come responsabile della questione lascia prive di protezione le vittime e non rende loro giustizia. Meritano un’analisi migliore, più oggettiva». Un doppio abbandono che, fuori e talvolta dentro la Chiesa, ha un obiettivo ben preciso: la delegittimazione. «Incolpiamo la Chiesa senza ricordare che essa ha sempre inteso educare i propri figli al controllo della sessualità. Se c’è qualcosa su cui la Chiesa ha continuamente insistito è proprio questo. Perciò credo che quando la si incolpa del problema della pederastia è precisamente per toglierle l’autorità morale per parlare di sessualità».
Pedofilia e pederastia problemi della Chiesa, dunque? O forse nella Chiesa, in larga maggioranza – ma non soltanto – di una parte delle persone con orientamento omosessuale presenti in essa? Un nodo – anche comunicativo – ancora tutto da sciogliere e che, con il progressivo superamento dell’eredità Viganò, potrebbe trovare nei nuovi interpreti della narrazione vaticana osservatori più attenti. Anche in vista delle nuove sfide che si profilano all’orizzonte, su tutte gli abusi nelle congregazioni religiose femminili e nell’associazionismo laicale.
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Il breve articolo offre spunti interessanti. Ed ha un piccolo grande merito: quello di usare l’espressione “omosessualità” e di utilizzarla fin dal titolo. E’ noto, infatti, che certa pubblicistica anche ecclesiale tende a derubricare la questione omosessualità fin dalla stessa terminologia – parlando sempre e solo di “abusi” e/o “pedofilia” finendo coll’alimentare quella equazione errata (preti uguale pedofili) che l’autore giustamente rimarca come un diffusissimo errore, definito correttamente “odiosa equiparazione”, presente nella opinione pubblica e, soprattutto, in coloro che vogliono denigrare la Chiesa.
Uno degli spunti che l’Autore offre è se la omosessualità sia una questione “della” Chiesa o “nella” Chiesa. Velocemente si potrebbe dire che sono, purtroppo, valide entrambe le affermazioni. Certamente è un problema “nella” Chiesa e questo è pacifico. Ed è anche un problema “della” Chiesa in quanto essa, Corpo Mistico di Cristo e Istituzione, di recente sta gradualmente – e pericolosamente- allontanandosi dalla corretta visione di quella tendenza oggettivamente disordinata così ben delineata nel Catechismo. Nel momento in cui dei Documenti (delle Chiese locali o dei Dicasteri) “sdoganano” la condotta oggettivamente disordinata e rendono moralmente leciti quegli atti che, invece, in nessun caso possono essere approvati, allora oltre ad essere un problema “nella” Chiesa diventa anche un problema “della” Chiesa. E che problema!