Peccato di ipocrisia mortale. Kobane, i curdi e la memoria corta

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A volte gli anniversari sono crudeli nel loro smascherare ipocrisie che il tempo e la memoria corta rischierebbero di celare. Prendiamo, ad esempio, Kobane.

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In queste ore carri armati, mezzi blindati e unità militari dell’esercito turco e delle milizie arabe filo-Erdogan muovono all’attacco della città. Kobane, un nome che il distratto Occidente dovrebbe ricordare bene, ma che invece rischia ora di scivolare fra le pieghe di una nuova guerra, ogni volta diversa e malgrado ciò sempre uguale alle altre.

Eppure soltanto cinque anni fa Kobane, città del Kurdistan siriano a pochi chilometri dal confine con la Turchia, era al centro della cronaca sull’offensiva dell’ISIS in Siria. Il tentativo di conquista da parte dello Stato Islamico venne respinto dai curdi e dai loro alleati, fra i quali gli Stati Uniti, e la battaglia di Kobane è considerata un punto di svolta nella guerra contro l’ISIS, dopo di allora non più in grado di organizzarsi efficacemente per conquistare altre città.

Kobane divenne il simbolo della tenacia del popolo curdo e un possibile pegno per la sua agognata indipendenza. L’assedio di Kobane e la strenua resistenza della popolazione curda sembravano riproporre in pochi mesi, dal settembre 2014 al marzo 2015, pagine che l’Europa si era lasciata alle spalle, almeno in parte. La comunità internazionale salutò la battaglia come una nuova pagina dell’epopea partigiana, in chiave mediorientale. L’umano bisogno di storie condusse, però, a guardare ai protagonisti – e soprattutto alle protagoniste – della resistenza del nuovo millennio.

Erano il ritorno di Giovanna d’Arco, di Wang Cong’er e delle partigiane antifasciste, tutte diverse, ma tutte donne. Delle guerriere di Kobane, come più in generale delle donne soldato curde, le cronache di guerra parlarono in abbondanza. Musiche e canti eroici (ricordate l’eccitazione delle Sinistre per Bella ciao cantata dalle donne curde?) si mescolavano nei telegiornali ai volti delle combattenti – abiti militari, occhi truccati, capelli sciolti – in un iconico contraltare ai corpi velati imposti dallo Stato Islamico. Con superficiale curiosità, le riviste femminili ne indagarono lo stile, le abitudini di vita, i legami familiari, scoprendole sorelle e figlie, se non fidanzate e mogli. Ma soprattutto il reggimento femminile dei peshmerga si dimostrò nuovamente uno dei punti di forza della difesa del Kurdistan iracheno, creato nel 1996 dall’Unione patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani: soltanto 11 reclute, ma il simbolo – un altro – della volontà di integrare le donne nel nascituro Stato. 

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Storie di cinque anni fa, ormai appartenenti al passato. Come quella di Hevrin Khalaf, attivista curda, uccisa in Siria pochi giorni fa a 35 anni lungo l’autostrada M4, forse da milizie filo-turche, forse da estremisti islamici dell’ISIS o del Fronte al-Nuṣra. Anche in passato la differenza non è mai stata molta. Un altro tipo di lotta, quella di Hevrin Khalaf, sostenitrice dei diritti delle donne e segretaria generale del Partito del Futuro Siriano, considerata un simbolo – di nuovo – di un dialogo scomodo e di una Siria fondata sulla coesistenza pacifica fra curdi, cristiano-siriaci e musulmani.

Un’immagine, anche la sua, destinata a svanire troppo in fretta. Come quella delle donne curde ritratte nel film Gulîstan, Land of Roses, della trentenne regista di origini curde, trapiantata in Canada, Zaynê Akyol, apprezzato dalla critica. O della graphic novel Kobane Calling, del fumettista italiano Zerocalcare. O, ancora, del piccolo Alan Kurdi, tre anni, etnia curda siriana, per breve tempo divenuto il simbolo della crisi globale dei migranti, ritratto senza vita – morto annegato – sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Anche lui fuggiva da una guerra che, allora come oggi, uccide la Siria. Ma le fotografie sbiadiscono in fretta. Forse fermeremo la vendita di armi alla Turchia, almeno ufficialmente. Di certo abbiamo già sospeso i ricordi, insieme al senso della vergogna.

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