Il Papa e Pompeo. La breccia di ieri e le brecce di oggi. Con una sortita lunga due continenti

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Ieri la breccia di Porta Pia, oggi ferite di ben altra natura. Perché dalla politica giacobina a quella neo-con americana il passo è breve.

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Non si contano in questi giorni i richiami ai 150 anni dalla breccia di Porta Pia. Vale a dire da quella presa di Roma che, fra mille contraddizioni, fu un utile salasso contro alcuni dei mali della Chiesa – su tutti, la commistione con il potere temporale – e dunque un dono inatteso della storia.

Oggi attacchi di ben altra natura aprono brecce profonde nella Chiesa. Provocando un danno tanto maggiore quanto più essi provengono dall’interno. Secolarismo, relativismo, mondanità, seduzioni del pensiero dominante, clericalismo, malaffare e rivendicazioni femministe non sono che una piccola parte degli eserciti che assediano la Chiesa, le cui forze sono amplificate dai media.

Basti pensare alla recente udienza concessa da papa Francesco ad alcuni membri di un’associazione che riunisce genitori di ragazzi con tendenze omosessuali. Le versioni delle parole pronunciate da papa Francesco nell’occasione non si contano, in gran parte contraddittorie e dalle implicazioni ben diverse, molte delle quali accomunate dall’intento evidente di adulterare una volta di più dottrina e pastorale cattoliche in tema di omosessualità.

Gli interessi, tutt’altro che orientati a ciò che è bene per l’uomo, sono d’altronde enormi. Accusata per secoli di manipolare la politica – anche da parte di alcune di quelle stesse forze risorgimentali che fecero l’Italia – la Chiesa rischia oggi di essere vittima essa stessa di pesanti strumentalizzazioni. I più diversi esponenti della politica internazionale attingono da tempo, guastandola, alla credibilità della Chiesa. Un fenomeno crescente, come si è già osservato.

A quale livello di commistione fra politica e religione si sia ormai giunti, specie in alcune aree del mondo, lo dimostra la recente presa di posizione, condensata in un tweet, del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo.

«Due anni fa la Santa Sede ha raggiunto un accordo con il Partito Comunista Cinese, sperando di aiutare i cattolici della Cina», scrive Mike Pompeo. «Da allora gli abusi del PCC sui fedeli sono solo peggiorati. Il Vaticano mette a rischio la propria autorità morale, se dovesse rinnovare l’accordo».

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Da che pulpito, potrebbe essere la prima, facile reazione. Viene invece da chiedersi se si possa parlare di un vero e proprio attacco, come l’hanno giudicato in molti, oppure di un buon grado di inconsapevole confusione. Un’azione, come si è giustamente osservato, condotta a partire dal piano politico per giungere a quello morale, esplicitamente evocato da Pompeo. Al centro delle critiche, sebbene ambivalenti, si colloca infatti più propriamente la Santa Sede, parte in causa nell’accordo con la Cina, e non il Vaticano. Vale a dire il Papa come successore di Pietro e non come sovrano dello Stato Città del Vaticano. Non esattamente una bazzecola.

L’intera argomentazione di Mike Pompeo, repubblicano di origini abruzzesi, un tempo avversario di Trump, si muove d’altronde sul filo sempre più sottile che negli Stati Uniti separa religione e politica, specie in questa campagna elettorale. «Se il Partito Comunista Cinese riuscirà a mettere sull’attenti la Chiesa cattolica e altre comunità religiose – scrive Pompeo nel lungo articolo per First Things, nota rivista conservatrice statunitense, rilanciato con il medesimo cinguettio – i regimi che disdegnano i diritti umani saranno rafforzati, e il costo della resistenza alle tirannie si alzerà per tutti i coraggiosi fedeli che onorano Dio al di sopra dell’autocrate di turno».

Non che Pompeo sia nuovo alle retoriche altisonanti. Lo scorso anno, durante una visita in Israele, il Segretario di Stato americano aveva dichiarato – «da cristiano» – non solo di ritenere il presidente Donald Trump un uomo «guidato da Dio», ma addirittura che è «certamente possibile» che Trump sia «come la regina Ester: suscitato per aiutare a salvare il popolo ebraico dalla minaccia iraniana». Anche meno, suggerirebbe un certo slang romano. Tanto più che scovare paragoni simili con i politici italiani sarebbe senza dubbio un esercizio divertente.

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Non stupisce, insomma, che in attesa della visita dello stesso Pompeo in Vaticano, prevista per il prossimo 29 settembre, papa Francesco sia tornato domenica su un’immagine che gli è cara: quella che gli vede preferire una Chiesa incidentata in uscita ad una Chiesa malata perché trincerata nelle false sicurezze della propria zona comfort. Anche quando uscire significa attraversare quasi due continenti. Perché il Papa, che lo si condivida o meno, è per i ponti – anche sopra i fossati – e contro i muri – e le mura. Anche attorno a Roma. Con la certezza, anche in questo caso, che saprà trarci del buono Colui che governa e Chiesa e storia.

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