Papa Francesco in Giappone. La storia e i nodi irrisolti

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Dal 20 al 26 novembre prossimi Thailandia e Giappone saranno, rispettivamente, il sesto e il settimo Stato dell’Estremo Oriente visitati da Francesco, dopo Corea del Sud, Sri Lanka, Filippine, Birmania e Bangladesh. Importanti sullo scacchiere internazionale, entrambi i Paesi possono invece sembrare marginali dal punto di vista numerico, con una popolazione cattolica che va dallo 0,35% del Giappone allo 0,5% della Thailandia. Sebbene entrambi siano attraversati da profonde contraddizioni sociali e culturali, sarà il Giappone a rappresentare la vera sfida per il Papa.

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Francesco vi si recherà dal 23 al 26 novembre 2019, visitando le città di Tokyo, Nagasaki e Hiroshima. Città dall’alto valore simbolico, oltre che umano e religioso, che legheranno profondamente la visita del Pontefice alla storia della Chiesa in Asia. E non solo perché Francesco, primo pontefice gesuita della storia della Chiesa, si recherà nel Paese dell’evangelizzazione gesuita per antonomasia. Ma soprattutto perché quella del Cristianesimo in Giappone è una storia profondamente segnata dalla persecuzione e dal martirio, così come da pagine luminose e di grande attualità.

Sin dall’arrivo di Francesco Saverio e degli altri Gesuiti nel Cinquecento, infatti, il sangue dei martiri è stato una costante della Chiesa giapponese. I primi 26 martiri cristiani giapponesi risalgono alla fine del Cinquecento e solo vent’anni dopo il Cristianesimo venne bandito dal Giappone, considerato espressione del desiderio di conquista occidentale. Le persecuzioni si moltiplicarono contro missionari e convertiti autoctoni. Un epilogo? Tutt’altro. L’espulsione dei sacerdoti e le violenze contro i cristiani rimasti non ebbero come conseguenza la “fine della Chiesa”, che trovò invece continuità in un laicato pronto ad assumersi le proprie responsabilità. È allora che ebbe inizio una fase di nascondimento lunga secoli, insieme alla diaspora nelle tante isole dell’arcipelago giapponese delle nutrite comunità cristiane sorte dopo l’arrivo dei francescani e dei domenicani, in particolare a Nagasaki. Una “Chiesa senza sacerdoti” per quasi tre secoli, fra gli esempi tornati d’attualità con il Sinodo sull’Amazzonia. Una ricetta per molti versi di successo, se si considera che si narra furono 10 mila i “cristiani nascosti” che nel 1865 si presentarono ai padri delle Missioni Estere di Parigi giunti a Nagasaki dopo la riapertura del Giappone al mondo. Anche allora, tutt’altro che la fine della storia, così come delle persecuzioni contro i cristiani, che proseguirono fin quasi alla metà del Novecento.

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Se ne riparlò ancora dopo il 1945, quando le bombe atomiche statunitensi uccisero fra le 100 mila e le 200 mila persone, pressoché esclusivamente civili, nelle esplosioni gemelle di Hiroshima e Nagasaki. Proprio quest’ultima città era il centro principale della Chiesa cattolica in Giappone e ospitava una delle maggiori e più antiche comunità cattoliche dell’arcipelago. Testimone oculare del bombardamento di Hiroshima fu il gesuita e futuro generale della Compagnia di Gesù Pedro Arrupe, allora in missione in Giappone. Sulla scelta dell’obiettivo, privo di rilievo strategico, ebbe modo di esprimere dolorose perplessità anche il card. Giacomo Biffi (Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Siena, Cantagalli, 2010).

Frammenti di storia che ancora oggi il Giappone porta con sé, mentre si misura con problemi di tutt’altro genere. Se nel Seicento la fede in Dio era un’eredità di padre in figlio, oggi la trasmissione appare sempre più difficile. Il venir meno dei legami con la fede si inserisce in una più ampia perdita degli orizzonti esistenziali, fino alle estreme conseguenze di un’alienazione che sempre più spesso coinvolge in un gioco perverso giovani e tecnologia. Un uso superficiale, eppure micidialmente pervasivo, dei media digitali espone al rischio di un isolamento estremo – un fenomeno noto con il termine giapponese hikikomori, letteralmente “stare in disparte” – che interessa un numero crescente di giovani in molti Paesi, in particolare asiatici. Una dinamica emersa lo scorso anno anche nell’Instrumentum laboris del Sinodo sui giovani. Fra le conseguenze di una felicità illusoria, confinata nel mondo digitale, figura un tasso di suicidi fra i più alti al mondo (16,7 suicidi ogni 100 mila persone nel 2017), considerato fra i maggiori problemi del Paese, che la disoccupazione conseguente alla recessione economica e la diffusa depressione non fanno che aggravare. Lo aveva anticipato Francesco due anni fa, in un video-collegamento dal Vaticano con gli studenti dell’Università Sophia di Tokyo, individuando in «eccessiva concorrenza», «competitività» e «consumismo» le tre radici dei mali sociali del Giappone.

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È questa una possibile chiave di lettura anche per il logo e lo slogan scelti per il viaggio apostolico del Papa, “Proteggere ogni vita”. Quella nascente e quella neppure tale a causa dei molti ostacoli alla natalità, così come quella soffocata dai numerosi problemi sociali. Insieme a quelle delle tante persone “scartate”, lasciate indietro da un supposto progresso che non si dà pena di rallentare per tendere una mano quanti sono abbandonati ai margini della via maestra di un Illuminismo sempre più individualista. Persistono, infine, le molte questioni irrisolte legate all’economia, alla pace, alle relazioni con i Paesi vicini e alla natura.

La rottura del rapporto dell’uomo con Dio, infatti, non può che avere effetti devastanti anche in termini ambientali. Lo sfruttamento indiscriminato dei mari e degli altri habitat naturali non è che la punta dell’iceberg di un problema ben più profondo. Mentre il mondo intero, e non solo il Giappone, è ancora alle prese con le conseguenze del disastro di Fukushima (la centrale nucleare danneggiata dal sisma e dal conseguente tsunami del marzo 2011), due mesi fa, per bocca del ministro dell’ambiente Yoshiaki Harada, la Tokyo Electric Power, gestore della centrale nucleare giapponese, ha annunciato l’intenzione di sversare nell’Oceano Pacifico oltre un milione di tonnellate di acqua contaminata proveniente dai condotti di raffreddamento dei reattori. Un progetto che non ha creato l’allarmismo che ci si attendeva, anche in considerazione del fatto che dall’acqua e dalle alghe prima, ai pesci e alle nostre tavole poi, il passo sarebbe breve. Mentre il mondo guarda alle ferite dell’Amazzonia, una simile soluzione getterebbe a mare anni di impegno per un’ecologia integrale, belle intenzioni sulla casa comune ed acclamati autostop eco-friendly in barca a vela.

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