«Nessun maestro mi aveva avvisato che il silenzio poteva essere nefasto, malefico, che poteva condurre l’uomo a mentire a tradire, che poteva frantumare e spezzare l’uomo invece di cementarlo. Dopo le grida, i colpi e l’obbligo di restare in piedi, il silenzio. L’angoscia dilagò. Capivo che il silenzio era una tortura più raffinata, più brutale degli interrogatori». Così Elie Wiesel, scrittore ebreo di origini rumene, premio Nobel per la pace, scampato all’Olocausto e scomparso ad inizio luglio, nel suo Testamento di un poeta ebreo assassinato. Un silenzio concepito come vuoto, moderno horror vacui psicologico, filosofico, esistenziale.
Nell’arte l’espressione horror vacui – letteralmente “paura del vuoto” – è usata per riferirsi al riempimento dell’intera superficie di un’opera con intrichi geometrici, forme animali e altre figure sino a non lasciare alcuno spazio vuoto nella decorazione. Proprio dell’arte germanica dell’Europa medievale – ma anche degli arabeschi dell’islam e degli urli artistici di Adolf Wölfli – l’horror vacui caratterizzò tutti i campi artistici, dall’oreficeria ai libri miniati, dalla metallurgia alle decorazioni architettoniche (nell’immagine: altare di Ratchis, 737-744, Cividale del Friuli, Museo cristiano e tesoro del duomo). Uno stile artistico che nella società moderna si fa stile di vita. Una contrapposizione fra pieno e vuoto nella quale l’uomo si dibatte fra un esubero di rumore e di azione che sempre più spesso è fuga dal silenzio e un inevitabile bisogno di spazi di vuoto che molta parte del ritmo di vita moderno gli nega.
Ne è consapevole papa Francesco. Sul volo di ritorno dall’Armenia, il 26 giugno scorso, il Pontefice, anticipando la sua scelta di non pronunciare alcun discorso in occasione della visita di questa mattina ad Auschwitz-Birkenau, spiegava di voler «andare in quel posto di orrore senza discorsi, senza gente, soltanto i pochi necessari… Ma i giornalisti è sicuro che ci saranno! Ma senza salutare questo, questo… No, no. Da solo, entrare, pregare… E che il Signore mi dia la grazia di piangere». Un atteggiamento adottato anche di fronte al memoriale del genocidio armeno di Tzitzernakaberd e, due anni prima, al sacrario militare di Redipuglia, per il centenario della Grande Guerra.
Una scelta apprezzata dalla comunità ebraica internazionale. Nei luoghi simbolo dell’Olocausto, dello sterminio di oltre un milione di persone dei 15 milioni di morti della Shoah, il Pontefice della gestualità ha scelto il silenzio come via della comunicazione e, insieme al dono delle lacrime, dell’edificazione. Ben lo sapevano i Padri del deserto. «Il padre Teofilo arcivescovo si recò un giorno a Scete. I fratelli riunitisi dissero al padre Pambone: “Di’ al Papa una parola di edificazione”. L’anziano dice loro: “Se non è edificato dal mio silenzio, non potrà esserlo dalle mie parole”»1.
C’è però silenzio e silenzio. Se per i Padri del deserto in Egitto, Palestina e Siria il silenzio fu la via per la trascendenza e la santificazione, furono essi stessi a riconoscerlo talvolta come di ispirazione diabolica. Una contrapposizione che non deve sorprendere. «Nessun maestro mi aveva avvisato che il silenzio poteva diventare una prigione. Io non sapevo che si potesse morire di silenzio, come si muore di dolore, di fatica, di fame, di stanchezza, di malattia o d’amore. Prendi posizione. La neutralità favorisce sempre l’oppressore, non la vittima. Il silenzio incoraggia sempre il torturatore, mai il torturato». L’esperienza – attualissima – di Elie Wiesel mostra come ci siano silenzi vuoti e silenzi pieni. Silenzi vuoti per l’indifferenza, la complicità, il rancore, e silenzi pieni di riflessione, attenzione, umiltà. Silenzi vuoti di fronte al male che avanza e silenzi pieni di opportunità per la preghiera e l’azione.
1. Pelagio e Giovanni, Vitae Patrum, XV, 42.
Nell’immagine: Papa Francesco ad Auschwitz nella “cella della fame” che fu di Massimiliano Maria Kolbe.
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