Olimpiadi di Parigi 2024: offese, scontri e cattivo gusto dell’equivoco. Verrà la pace? Lasciate che lo sport salvi le olimpiadi, e non solo.
E pensare che i timori, nei giorni che hanno preceduto la cerimonia di apertura delle olimpiadi di Parigi 2024, si erano concentrati sulle tensioni fra Israele e Palestina e sul rischio di una intromissione della politica nello spirito dei giochi. E intromissione c’è stata, ma su ben altro versante e con la porta spalancata dagli stessi organizzatori, con premeditazione: mesi di pianificazione per esibire una cerimonia di apertura di una noia disarmante, ravvivata soltanto da nomi dello spettacolo, tacchi a spillo e teste mozzate. Poca liberté, soprattutto nel senso di un’emancipazione da una volgarità senza fantasia, e molta stupidité.
Superfluo soffermarsi sulla vicenda in sé, fin troppo nota. Come pure sulle giustificazioni raffazzonate e poco sentite che sono seguite, che tradiscono superficialità e disorganizzazione, quando non l’intento di sfruttare l’equivoco. Che sia una dissacrazione dell’Ultima Cena (ma non si comprende perché dovrebbe esserlo solo di quella di Leonardo da Vinci) oppure una cafonata che prende a modello Il banchetto degli déi di Jan van Bijlert (la posa di alcuni dei figuranti e il triste Dioniso inazzurrato sono indizi a favore), si comprende l’autentica radice di tanto cattivo gusto: atteggiarsi a divinità. Un neopaganesimo sciatto, fondato sull’individualismo e sulla convinzione di essere superiori ad ogni colpa e rispetto per gli altri.
Quale pace potrà mai venire, realisticamente, da queste prime olimpiadi post-moderne? Che sia la conveniente requie politica chiesta da Macron o la salvifica tregua olimpica invocata dal Pontefice e da altri idealisti, ne verrà soltanto la pace che stiamo già sperimentando: nessuna. La ekecheiria, la tregua olimpica della Grecia antica, è ormai ridotta a folklore e non risponde più all’orizzonte di pensiero che oggi orienta la maggior parte delle decisioni mondiali.
Sperare in una cessazione, anche solo momentanea, delle violenze in occasione di alcuni “momenti forti”, siano essi sportivi o religiosi, è illusorio e insidioso. Per la cronaca, e per la storia, ben poche volte la tregua è stata ottenuta, mentre più spesso le olimpiadi hanno rappresentato una vetrina ideologica, buona a tutto tranne che per l’armonia.
Non viviamo il tempo degli eroismi simbolici, ma quello della fatica quotidiana. È necessaria un’ordinaria e abituale assunzione di responsabilità. Serve ridare un nome alle cose – violenza, guerra, dignità, offesa, stupidità – perché tornino a corrispondere alla loro sostanza.
Eppure non basta la reazione ad un’offesa in mondovisione, se si accompagna a volte ad un silenzio distratto sulle persecuzioni, più o meno violente o insidiose, di molti cristiani nel mondo. La giusta indignazione per la prima non esclude la lotta perché le altre cessino. È allenamento di ogni giorno.
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