Olimpiadi. Quando la “bolla” sono le nostre vite

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Sport. Una parola dietro la quale si apre un universo complesso fatto di veri splendori, di abbagli illusori e di abissi di tenebra. E di contraddizioni, tante.


Lo sport, tutt’altro che per una coincidenza, è stato l’elemento ricorrente che ci ha accompagnato in questa estate della ripartenza, un’armonia tanto intensa – sebbene forse non così evidente – quanto le musiche e i canti dai balconi che hanno scandito i mesi dell’isolamento.

In entrambi i casi, di nuovo tutt’altro che per una coincidenza, come sfondo abbiamo scelto il Tricolore, acquistato per l’occasione oppure scurito dallo smog, sfilacciato o con qualche piega da cassetto. Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi, ha detto qualcuno. Sfortunato quello che sente il bisogno di unirsi soltanto nel tifo e nella solitudine.

Solitudine, un’altra delle contraddizioni dello sport. C’è della solitudine – con se stessi, con le proprie frustrazioni, con i propri interessi, con le proprie rivalse – nel gesto di togliersi una medaglia d’argento europea sognata da molti e di abbandonare il campo prima degli altri. La medesima emersa ora dopo la splendida vittoria di Lamont Marcell Jacobs. C’è anche della comprensibile, umana delusione, naturalmente, e un’impulsività di squadra, mista all’infantilismo proprio di ogni età, ma anche tanta solitudine.

La stessa solitudine che si è mostrata alle olimpiadi di Tokyo. L’olimpiade della “bolla”, il cordone di sicurezza contro il contagio, che fa acqua. L’olimpiade del mondo che sta vivendo una pandemia che non fa più notizia, perché si è spostata – forse – un po’ più in là, dove finalmente non disturba più la nostra tranquillità.

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Un’olimpiade zoppa e di rinascita, con l’anno sbagliato eppure giusto, con alcune bandiere in meno e qualche eccesso in più, che ha fra i suoi vincitori la pandemia e tra gli sconfitti quell’opportunità di cambiare davvero le cose. Con tanti giovani e giovanissimi protagonisti, con il loro mondo, bello e brutto. Qualche volta cattivo. Un mondo che talvolta è leggero come un sogno e altre insopportabilmente pesante.

Naomi Ōsaka e Simone Biles. 24 anni entrambe e vite con tanto in comune. Anche l’essere regine incoronate troppo presto, intrappolate dentro e sotto una corona che pesa troppo. Battaglie grandi – l’attivismo nel movimento Black Lives Matter – che però non riempiono fragilità ancora più grandi. Numeri da confermare, record da battere, caselle nelle classifiche da colmare. Ma c’è ben altro.

Naomi Ōsaka, Simone Biles e tanti altri ed altre, anche nel campetto sotto casa. E non solo nello sport. Non si tratta né degli errori né della sconfitta, e neppure della pressione, per quanto di certo non manchi. Perché la sconfitta non è un fallimento: anzi è forse la medicina più amara e più salutare donata dallo sport. È l’esistenza giù dalla pedana o lontano dal campo a dover preoccupare. Così come fuori dall’ufficio o dall’aula. Ogni volta che si arriva a sentire «tutto il peso del mondo sulle spalle», come dice Simone Biles. Un peso sotto il quale non si può che finire schiacciati.

Qualche «problema di salute mentale», era già trapelato della Biles da ambienti vicini al suo staff. Ansia e depressione, forse – senza nulla di cui vergognarsi – come quelle che hanno ferito la vita di Naomi Ōsaka. Neppure l’accensione del braciere olimpico, pochi giorni fa, sembra aver disperso le ombre di una forma di depressione di cui sarebbe vittima fin dall’US Open 2018. Una grave ansia sociale che in passato l’ha addirittura condotta ad indossare le cuffie durante le partite per non sentire il pubblico. Un senso di vuoto, come quello manifestato dalla star del basket statunitense Kevin Love e dal tennista austriaco Dominic Thiem dopo la vittoria agli US Open nel settembre 2020, che ne ha segnato il sostanziale ritiro dalle competizioni. «E quindi la mia vita mi sembrava vuota».

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Letteralmente uno “stare in disparte”. Hikikomori, in giapponese. Una lingua dolorosamente fin troppo adatta a definire la solitudine e le tante forme di alienazione dei giovani che vivono in completo isolamento, recisi dal mondo reale e innestati nei paradisi effimeri della rete, emarginati da esistenze che abbiamo reso sempre più pesanti e dall’incubo del bullismo (ijime). Espressione di una società al suo massimo grado di sviluppo, ma anche di una vita interiore a pezzi, con l’anima e la vitalità spente. E il cuore fermo.

C’è ricchezza di fede, anche alle olimpiadi di Tokyo. Un ottimo antidoto. Fra i tanti, il caso di Coryn Rivera, 28 anni, settima nella finale di corsa in linea femminile, in forza alla squadra di ciclismo degli Stati Uniti. «Sono cresciuta in una famiglia cattolica e sono praticante», ha detto Rivera, figlia di due immigrati originari delle Filippine che si sono incontrati negli Stati Uniti. «È la spina dorsale della mia famiglia. Mi ha dato una guida. Mi ha dato speranza e fiducia in quello che stiamo attraversando. Dio ha sempre guidato la nostra famiglia. Ci ha tenuti davvero forti». Il che non è sempre stato facile, soprattutto dopo la morte del padre a causa del Covid-19, a marzo, scienziato di laboratorio impegnato nella battaglia contro la pandemia.

Estate di rinascita? È una speranza. Una certezza, invece, è che sarà un’estate di solitudine per molti anziani e malati. E, spesso dimenticati, anche per molti giovani. Prigionieri delle proprie insicurezze, di vecchi e nuovi disordini, reali o inculcati dalla cultura e dall’ideologia del momento.

“Più veloce, più in alto, più forte – insieme”. Quanto ci siamo ancora lontani. Stiamo schiacciando il nostro futuro sotto un peso insopportabile. Il mondo ha bisogno di giovani. Di figli. La libertà è sentirsi figli amati, davvero. Siamo umani. Restiamo umani. Non siamo soli.

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