Gli arabi stanno voltando le spalle alla religione? La crescita dei “non credenti” sembrerebbe indicare di sì. Ma non è questo il maggiore “vuoto di fede”.
Il titolo è eloquente: “Gli arabi stanno voltando le spalle alla religione?”. È questo l’interrogativo che accompagna i risultati dell’ultima ricerca realizzata da Arab Barometer per BBC News Arabic. In sei anni, dal 2013 al 2019, la percentuale di abitanti del Nord Africa e del Vicino e Medio Oriente che si dichiarano “non religiosi” è salita dall’8% al 13%. L’aumento è più consistente fra gli under 30, dove si raggiunge il 18%. Percentuali ben inferiori a quelle europee (nel 2017 si dichiarava “non credente” il 22,6% degli italiani), ma che per la porzione di mondo a maggioranza musulmana dicono qualcosa di un cambiamento in corso. Ad esserne coinvolti sono soprattutto Tunisia, Libia, Marocco, Egitto e Algeria, dove lo scarto fra il 2013 e il 2019 è maggiore. Minimo, invece, l’aumento dell’abbandono della fede in Libano, Iraq e nei territori palestinesi. Unico Paese in controtendenza lo Yemen, con i “non religiosi” risultano pressoché dimezzati in sei anni (dal 12% al 6%).
Nel complesso, una parte importante del mondo a maggioranza musulmana sembra alle prese con una secolarizzazione che ha già duramente colpito il cosiddetto Occidente. Ma c’è di più. In numerosi contesti, dal Nord Africa al Medio Oriente, la perdita di credenti si accompagna a politiche di contrazione della libertà religiosa e alla diaspora delle comunità cristiane.
È il caso dell’Iraq, dove i “non credenti” raggiungerebbero circa il 7%. Non è questo, però, il maggiore “vuoto di fede” nel Paese. Nel 1947 i cristiani iracheni, fra le più antiche comunità al mondo, rappresentavano il 12% della popolazione. Dimezzati in meno di 60 anni, nel 2003 se ne contavano 1 milione e mezzo, poco più del 6% della popolazione. Dopo la guerra, è stato stimato che il numero dei cristiani sia sceso a 200-450 mila. Nel 2018 un rapporto della Iraqi Human Rights Society denunciava come, al pari di altre minoranze religiose in Iraq, questi fossero vittima di un “genocidio silenzioso”, tale da aver già condotto alla scomparsa di oltre l’80% dei cristiani dal Paese. Dopo l’invasione della Piana di Ninive da parte dell’Isis, cristiani, yazidi, shabak e musulmani sciiti, ma anche i sunniti che non condividevano l’ideologia estremista del sedicente Stato Islamico, hanno subito con diversa intensità omicidi, stupri, sequestri di persona, distruzione di chiese e moschee, occupazione di abitazioni. Sebbene dopo la sconfitta dello Stato Islamico la situazione abbia iniziato a migliorare e gruppi di cristiani e di altre minoranze religiose abbiano cominciato a tornare alle proprie case, il loro numero pare irrimediabilmente diminuito, come rivela l’ultimo rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre. Il perdurare di una situazione di tensione religiosa, etnica e politica, insieme alla presenza di gruppi radicali islamici che mirano a rendere il Paese integralmente musulmano e di sentimenti anti-occidentali ed anti-cristiani impediscono ancora il ritorno in patria di molti cristiani. Anche per questo si attende con particolare speranza il viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq, previsto per il 2020.
Un contesto per molti versi diametralmente opposto è quello della Tunisia. Stando al sondaggio di Arab Barometer, nel Paese nordafricano i “non religiosi” superano il 30%, segno di una secolarizzazione ormai radicata. Che convive, però, con una crescente pressione sociale e statale in favore di un islam più conservatore, specialmente nelle piccole città e nelle aree rurali remote, come rivela l’ultimo rapporto di ACS. Sebbene in seguito alla Primavera Araba del 2011 lo Stato tunisino si sia finora mostrato più tollerante nei confronti dei cristiani, l’influenza esercitata dalla propaganda estremista islamica risulta ancora forte. L’agenzia missionaria Porte Aperte denuncia come gli stranieri in Tunisia godano sì di ampia libertà religiosa, ma nel divieto di svolgere qualsivoglia opera pubblica di evangelizzazione. Ancora oggi i tunisini convertiti al Cristianesimo vengono marginalizzati dai propri congiunti e da gran parte della comunità, con pesanti ricadute sociali e professionali.
Dal canto suo, la ricerca di Arab Barometer rivela altri dati a loro modo illuminanti. Se in molti Paesi nordafricani e mediorientali per la maggioranza della popolazione sembra caduto il tabù di una donna presidente, perdura la convinzione che il marito debba avere l’ultima parola sulle decisioni familiari. E sebbene sia cresciuta la tolleranza nei confronti dell’omosessualità in Algeria, Marocco e Sudan, questa è accettata tanto quanto il delitto d’onore, segno di come la propaganda occidentale si sia impegnata più a favore dei presunti “nuovi diritti” che di quelli di donne, mogli e figlie. Dal punto di vista politico, è unanime la vittoria del presidente russo Vladimir Putin su quello statunitense Donald Trump in termini di apprezzamento, ma a farla da padrone in Sudan, Giordania, territori palestinesi, Algeria, Marocco, Tunisia e Yemen è il turco Erdogan. Diffusa anche l’ostilità nei confronti di Israele, percepito come la principale minaccia internazionale in 6 Paesi degli 11 nei quali è stata condotta l’inchiesta, Libano in testa. Forte anche la propensione all’emigrazione, soprattutto in Giordania e Marocco, prevalentemente a favore dell’Europa, sebbene questa non sia l’unica destinazione e fra le mete crescano i Paesi del Golfo, soprattutto nelle intenzioni di egiziani, sudanesi e yemeniti.
In generale, una situazione intricata e ancora in divenire, nella quale la fede e il pluralismo culturale ed etnico, da millenni caratteri fondamentali per la tenuta e la ricchezza delle società, stanno venendo meno, con risultati che è difficile prevedere. L’Occidente insegna.
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