Sono le k’alebi, le donne, la vera anima della Georgia. Le dedebi, le madri instancabili che sostengono la famiglia e piangono di nascosto. E le beboebi, le nonne, nella loro malinconica dignità, che accompagnano le note del panduri nelle canzoni popolari. È sempre stato così in Georgia, come in buona parte dell’Europa, dell’Asia e, in fondo, del mondo intero. Anche nella fede. A poco più di un centinaio di chilometri ad est di Tbilisi, non distante dal confine con l’Azerbaigian, si trova uno dei simboli religiosi più importanti della Georgia, il Monastero di Santa Nino di Bodbe. Insieme alle reliquie della santa, custodisce una delle storie più affascinanti della Cristianità d’Oriente. Un misto di evangelizzazione e Divina Commedia, tutta al femminile.
Nel giugno scorso le Chiese ortodosse – o almeno alcune di esse – si sono riunite a Creta per il Concilio pan-ortodosso. Una «pagina di storia» per il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, poco più di un sinodo di vescovi, secondo altri. Fra aspettative esaudite e disattese, il Santo e Grande Concilio ha comunque prodotto una novità, passata forse un po’ sottotono: la partecipazione, per la prima volta in una grande adunanza, di 9 donne fra i 290 delegati, parte del seguito del Patriarca ecumenico. Una novità di non poco conto, quando è risaputo che nella maggior parte delle Chiese ortodosse la decantata “questione femminile” – alcuni direbbero femminista – non è fra gli argomenti all’ordine del giorno. Nel bene e nel male.
In verità un ruolo attivo nelle Chiese ortodosse le donne lo hanno sempre avuto, anche di spicco, che ha mostrato tutto il suo valore durante gli anni più bui della repressione comunista e dell’ateismo militante. Negli ultimi anni, poi, anche nella Chiese ortodosse alcune donne sono venute ad occupare posti di responsabilità nei dipartimenti sinodali, le strutture di governo della Chiesa. Proprio dalla Georgia, ed in particolare dalla Chiesa apostolica autocefala ortodossa georgiana, arriva una storia che, seppure fra coloriture agiografiche e dettagli contrastanti, racconta di un’evangelizzazione tutta al femminile, oggi insospettabile.
Al centro della vicenda è santa Cristiana di Georgia, meglio conosciuta come santa Nino. Sui suoi natali le fonti agiografiche ortodosse e cattoliche divergono. Se per le prime la santa era di nobili origini, figlia di un generale romano e imparentata con san Giorgio e con il patriarca di Gerusalemme Giovenale I, per la Chiesa cattolica – che pure la venera come santa – l’apostola della Georgia non era più che una giovane schiava al suo arrivo nel Caucaso, originaria forse della provincia romana della Cappadocia. Sì, perché nonostante le differenze, a santa Nino – che la Chiesa ortodossa georgiana venera come “uguale agli apostoli” – è riconosciuta nientemeno che l’evangelizzazione della Georgia.
Nel IV secolo buona parte del Caucaso era, infatti, ancora patria di pagani. Proprio in quelle terre, però, la tradizione vuole che fossero giunte le reliquie della veste di Cristo. Una storia che Nino apprese dall’anziana donna che la crebbe e la educò alla fede cristiana, Sara Niaphor. La prima di una serie di donne che ebbero un ruolo di primo piano non solo nella vita di Nino, ma anche nella conversione della Georgia, la seconda delle quali fu Maria. Stando alle fonti agiografiche ortodosse, infatti, fu la Madre di Dio ad indicare a Nino, ancora ragazza giunta a Roma al seguito dello zio Patriarca, la missione che l’avrebbe condotta in Georgia – al tempo chiamata Iberia, da non confondersi con l’omonima penisola nell’occidente europeo – nonché a donargli quello che sarebbe divenuto uno dei simboli più noti della santa e dell’intera Cristianità georgiana: una croce fatta di tralci di vite.
Intrecciata la croce con i propri capelli – o, secondo altre fonti, trovandola già adorna di quelli della Vergine – Nino maturò la decisione di partire per la Georgia, non prima, però, che la sua storia si legasse a quella di altre donne. Nella capitale della Cristianità, infatti, Nino conobbe la principessa armena Hripsime, giunta a Roma insieme al suo seguito di vergini. Convertite da Nino al Cristianesimo e da essa battezzate, per le donne la Roma di Diocleziano si rivelò ben presto ostile. Costrette alla fuga – non solo dalla persecuzione dell’imperatore, ma anche dai suoi appetiti sensuali – Nino e le sue compagne giunsero fino in Armenia, a Vagharshapat, dove quasi tutte subirono il martirio per mano del re Tiridate III. A scampare al massacro fu solo Nino, che poté così giungere in Georgia, accolta da un gruppo di pastori mtskhetani vicino al lago Paravani, sull’altopiano del Javakheti, la culla del Cristianesimo georgiano.
È qui che Nino iniziò quella missione fra i pagani – predicando, battezzando e compiendo miracoli – che ancora oggi nella Chiesa ortodossa le vale l’appellativo di “uguale agli apostoli”. Né le manca il ruolo di apostola del ruolo delle donne nella Chiesa. Una leggenda agiografica narra infatti che, scoraggiata da alcuni insuccessi durante l’evangelizzazione, a Nino apparve un angelo con un rotolo contenente passi del Nuovo Testamento a sostegno della parità dei sessi nelle fede, per rincuorarla nella sua missione. Fra di essi, il mandato di Cristo a Maria Maddalena e alle altre donne di annunciare la sua resurrezione ai discepoli1. È in Georgia che Nino ebbe modo di coinvolgere nell’evangelizzazione la stessa famiglia reale, nella persona – inutile dirlo – di un’ennesima donna: Nana, moglie del re Mirian.
Proprio al sovrano georgiano, l’ultima delle conversioni illustri operate da Nino, è legata una curiosa leggenda agiografica. Impegnato in una battuta di caccia, mentre in cuor suo aveva forse già maturato l’idea di uccidere i nuovi fedeli di Cristo, moglie compresa, il sovrano sarebbe stato sorpreso nella foresta dalle tenebre e dalle fiere selvatiche. Un passo che non può non riportare alla mente la selva oscura della Commedia dantesca, densa di un buio più interiore che esteriore, frutto della propria cecità di fronte al peccato e alla violenza. Proprio una preghiera rivolta al “Dio di Nino” conferì infine a Mirian la luce. Come spesso accaduto anche in Occidente, la conversione del sovrano al Cristianesimo significò la conversione dell’intero regno. Battezzato dalla stessa Nino, il sovrano rinunciò al paganesimo e nel 327 proclamò il Cristianesimo religione di Stato, facendo della Georgia il più antico regno cristiano dopo l’Armenia. Completata la sua missione, Nino si ritirò sul passo montano di Bodbe, nella regione della Cachezia, dove le sue spoglie sono ancora oggi venerate nel monastero voluto dallo stesso re Mirian.
«La Chiesa è donna, è sposa di Cristo, è madre del suo popolo di fedeli cristiani», ha ricordato a più riprese papa Francesco, giungendo a sottolineare nel luglio 2013, sul volo di ritorno a Roma dal Brasile, che «non si può immaginare una Chiesa in cui le donne siano escluse». Pur avendo istituito il 2 agosto scorso una Commissione di studio sul diaconato delle donne, del quale è presidente il gesuita e segretario della Congregazione per la dottrina della fede, mons. Luis Francisco Ferrer, il Pontefice ha già chiarito che «per quanto riguarda l’ordinazione delle donne, la Chiesa ha parlato e ha detto no. Giovanni Paolo II si è pronunciato con una formulazione definitiva, quella porta è chiusa». Se in Georgia Francesco dovesse decidere di affrontare l’argomento, troverebbe – almeno su questo – un uditorio sintonizzato sulla sua stessa lunghezza d’onda.
1. Cfr. Mt 28,10; Mc 16,9-10; Lc 24,10; Gv 20,17.
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