Il Papa è in partenza per l’Armenia. Ad attenderlo le speranze di due popoli e un trappola: quella del Nagorno-Karabakh, il “giardino nero” al confine tra Armenia e Azerbaigian.
«Nessuno di noi nega che ci siano stati massacri orribili, lo sappiamo molto bene e lo riconosciamo, e andiamo al memoriale per ricordarlo, ma non vogliamo fare di questo una trappola di discussione politico-sociologica perché andiamo alla sostanza», ricordava qualche giorno fa in un briefing padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Una trappola i cui tratti si vanno delineando giorno dopo giorno e che qualche giorno fa anticipavo dalle pagine di questo blog.
«Il Papa – ha precisato padre Lombardi – visita tre Paesi del Caucaso partendo dall’Armenia: per diversi motivi si sono dovute separare le due tappe, tra gli altri motivi perché il patriarca georgiano doveva essere a Creta in questi giorni». Non è difficile immaginare che fra i motivi ulteriori figurino le tensioni ancora presenti fra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, il “giardino montuoso nero” o “giardino nero superiore”, noto anche come Alto Karabakh, territorio montuoso conteso fra i due Paesi e oggetto di un conflitto negli anni Novanta rinfocolatosi lo scorso aprile, pochi giorni prima dell’annuncio della visita di papa Francesco in Armenia. E se il Papa non va in Armenia per fare politica, come ha ricordato qualche giorno fa l’arcivescovo Raphaël François Minassian, capo dell’ordinariato dei cattolici armeni in Armenia, Georgia ed Europa orientale, c’è da scommetterci che non mancherà chi la farà per lui. E ha già iniziato.
Il Nagorno-Karabakh è teatro di tensioni da quasi un secolo. All’origine dello scontro non solo arbitrarie decisioni politiche – come quella con cui nel 1923 Stalin assegnava il territorio, abitato in prevalenza da armeni cristiani, all’Azerbaigian musulmano – ma anche la molteplicità di religioni ed etnie che caratterizza l’area. Furono prevalentemente ragioni etniche ad innescare nel 1988 un primo conflitto fra armeni e azeri in seno all’allora blocco sovietico, protrattosi fino al 1994. Almeno 30 mila i morti e centinaia di migliaia i profughi da uno Stato all’altro: azeri in fuga dall’Armenia e armeni dall’Azerbaigian dopo i pogrom di Baku.
Nonostante il Nagorno-Karabakh sia formalmente azero, oggi è di fatto una repubblica autoproclamatasi indipendente dall’Azerbaigian e sotto il controllo militare di forze armene e separatiste in un perenne stato di guerra a bassa intensità. Per tentare di porre fine al conflitto esistono risoluzioni dell’Onu e dell’Unione Europea e la mediazione del Gruppo di Minsk (OSCE), che ad oggi hanno ottenuto il solo risultato di protrarre lo stato di belligeranza etnica e politica nell’area. A nulla sono valsi anche gli interventi internazionali, prevalentemente russi (per parte armena) e turchi (per parte dei cugini azeri), che hanno finito soltanto con il legare questa importante cerniera fra Europa e Asia – e tra Mar Nero e Mar Caspio – a più grandi contrapposizioni ed interessi geopolitici. Tutto, in fondo, si gioca fra Mosca ed Ankara.
Proprio all’inizio dell’aprile scorso, a pochi giorni dall’annuncio della visita di papa Francesco in Armenia – che si completerà in autunno con il viaggio in Azerbaigian e Georgia – il conflitto è tornato a riaccendersi nel Nagorno-Karabakh, con violenti scontri che hanno fatto vittime fra i rispettivi eserciti e la popolazione civile. I due Paesi sono ancora formalmente in guerra e se il governo dell’Azerbaigian ha più volte minacciato di riconquistare il Nagorno-Karabakh con la forza, i gruppi separatisti nell’area sono sostenuti economicamente, militarmente e diplomaticamente dall’Armenia. Non stupisce quindi che il conflitto si sia trasferito, a colpi di diplomazia, anche sul terreno del viaggio di papa Francesco.
Il riconoscimento tedesco del genocidio armeno e l’attenzione mediatica attorno alla visita del Papa al memoriale di Dzidzernagapert hanno riacutizzato lo scontro attorno al riconoscimento dello status di genocidio alla strage di Kojiali compiuta nel 1992 da forze armate armene e russe a danno di civili azeri. Non a caso l’oculata diplomazia vaticana ha finora prediletto l’uso del «più forte» termine armeno “Medz Yeghern” a quello di genocidio, come spiegato da padre Federico Lombardi, e lo stesso Pontefice ha manifestato il proprio disagio «quando si parla di un genocidio di cristiani».
Puntualmente nelle scorse ore l’Azerbaigian, nella persona di Elkhan Suleymanov, presidente dell’Associazione per lo sviluppo della società civile in Azerbaigian, ha chiamato in causa papa Francesco con un lettera a lui indirizzata, perché esorti il governo armeno «a mettere fine all’occupazione illegale dell’Alto Karabakh». Nelle lettera, Suleymanov esprime «profonda preoccupazione» per la possibile strumentalizzazione politica da parte armena della visita del Pontefice, per «giustificare la loro occupazione illegale dell’Alto Karabakh e di altri territori azeri».
«Alla luce di questo, desideriamo fare appello alla responsabilità morale e spirituale della Santa Sede e fare appello a Vostra Santità di parlare a Yerevan delle tragedie che hanno avuto luogo nella regione dell’Alto Karabakh e di esortare le autorità armene a rispettare le conclusioni raggiunte dalla comunità internazionale, in particolare la restituzione di tutti i territori azeri occupati, in conformità con le risoluzioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa», ha scritto Suleymanov.
«Siamo certi che Vostra Santità è ben consapevole della profonda tradizione di tolleranza religiosa ed etnica che ha guidato il popolo dell’Azerbaigian per molti secoli, che porta alla pacifica convivenza fra cristiani, ebrei e musulmani», ha concluso Suleymanov, «nonostante questa ingiustizia continui e la terribile crisi che purtroppo ha inghiottito il nostro Paese e la nostra regione nel corso degli ultimi decenni». A non essere inghiottita dalle polemiche politiche, è certo, sarà però la visita di papa Francesco nel Caucaso.
Nella fotografia: Nagorno-Karabakh. Un soldato volontario armeno nei pressi della cittadina di Askeran, vicino ai combattimenti contro le forze azere [Reuters].
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