La nuova “rotta alpina “dei migranti di nuovo non ha nulla. Quasi 70 anni fa la chiamavamo speranza. Ora non più.
La nuova “rotta alpina” dei migranti non ha, in realtà, nulla di nuovo. Sono almeno due anni che uomini e donne provano a raggiungere la Francia dal Piemonte attraverso l’impervia via di montagna. Bardonecchia, Vars, Briançon, Névache, Val-des-Prés, Montgenèvre: nomi che diventeranno familiari, almeno per un po’. Fino alla prossima strada. Intanto, un’altra rotta migratoria è aperta. Nel 2015 l’hanno percorsa 693 persone. L’anno successivo erano dieci volte tante. Nelle ultime settimane vi passano in media 30 persone al giorno, 900 al mese. Val di Susa e Valle della Clarée, piste da sci e proteste, una manciata di chilometri in linea d’aria che diventano interminabili se percorsi in espadrillas sulla neve. I migranti, magliette leggere e piedi scalzi, quasi 1.800 metri di quota, imboccano il Colle della Scala di notte, sfidando il buio, il freddo e i controlli delle autorità francesi. Quelle che tentano di respingerli, ma anche le stesse che ne trovano i corpi: abbracciati nella neve, spenti insieme a piccole vite appena sbocciate, privati di arti a causa dell’ipotermia.
A nulla servono i cartelli di attenzione, a nulla le minacce, a nulla neppure il buonsenso. Perché il buonsenso certamente non può tacere di fronte a vite che sembrano gettate via in imprese senza futuro. Un tempo, però, l’avremmo detta forza della disperazione, o ancor meglio della speranza, ma da allora molto è cambiato. Con Pietro Germi l’abbiamo chiamato “il cammino della speranza”, ricordando chi sfidava le nevi delle Alpi per entrare clandestinamente in Francia, soltanto una manciata di decenni fa. La storia raccontata dal regista genovese e da Nino Di Maria nel romanzo Cuore negli abissi è al tempo stesso brutalmente semplice e straordinaria: il disperato viaggio oltralpe di un gruppo di minatori siciliani costretti ad emigrare dalla chiusura di una solfatara nei pressi di Favara, nell’agrigentino. Un tempo cinema per galantuomini e morale d’altri tempi, stroncata dalla critica. Epopea di sopravvivenza divenuta oggi delinquenza inaccettabile.
Abbiamo lottato, spesso nell’indifferenza di consolati e polizia, per far rimuovere i cartelli “vietato agli italiani” da alloggi e locali, in Germania e in Svizzera, ed ora ci scostiamo di fronte agli immigrati. Abbiamo protestato contro lo sfruttamento degli operai stranieri, noi compresi, ed ora cerchiamo la colf a buon mercato e l’operaio da pagare pochi euro all’ora e al quale dare nessuna garanzia. Abbiamo combattuto contro il pregiudizio dell’italiano sempre mafioso, ma oggi non distinguiamo la criminalità di alcuni migranti dalla situazione criminogena nella quale si trovano a sopravvivere molti di loro. E che dire della ragione ultima dell’uomo che ama e spera – la famiglia – per la cui unità e per il cui diritto all’educazione tanto abbiamo detto e tanto ancora giustamente diciamo, ma che per molti è divenuta una pretesa assurda se è lo straniero a volersi riunire ai propri familiari.
C’è chi di fronte al male delle migrazioni forzate ha invocato il dono delle lacrime. Forse non solo per suscitare emozioni, ma per fermarsi a riflettere su quanto sia evangelico, oltre che umano, fare agli altri quello che abbiamo chiesto – e spesso giustamente preteso – per noi. Non si tratta di restituzione, né di un debito della storia: è, una volta di più, buonsenso. Anzi, senso buono. Il presepe, stupidamente tolto dalle nostre scuole, ci raggiunge attraverso giornali e tg. Neve e persone in viaggio. Facciamoci, italiani o francesi, due regali da mettere sotto l’albero: un vecchio film e il desiderio di non chiudere, sempre con saggezza, le nostre porte. E ancor meglio sarebbe se fossero i nostri cuori.
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