«Erano tempi in cui si stava affermando una nuova destra politica e religiosa che miscelava liberismo economico, sacralizzazione del capitalismo e (a parole) la difesa di alcuni valori tradizionali. Il presidente peronista Carlos Menem in Argentina rappresentava questa corrente […]. Il neocardinale di Buenos Aires non si era lasciato incantare dalla predicazione strumentale di Menem sui temi morali». Basterebbe questo passaggio per rendere l’idea dell’attualità di un testo nato come un diario di ricordi personali, «un lascito di memoria da predisporre in tempo, prima di perderla, la memoria». Che, invece, diventa un libro, da venerdì in libreria, Papa Francesco come l’ho conosciuto io (San Paolo, 192 pp., 16 euro), scritto da Lucio Brunelli, già vaticanista del Tg2 e direttore news di Tv2000.
Raramente, nel clima di livore che ha contagiato anche parte della Chiesa, si ha l’opportunità di avere fra le mani un volume privo di polemiche e di rivelazioni scandalistiche, costruito piuttosto sulla consapevolezza che «il rapporto che il buon Dio mi ha concesso di vivere con Jorge Mario Bergoglio ha toccato in profondità la mia vita», come scrive Brunelli.
Una prospettiva professionale e umana privilegiata – e per molti versi inedita – su una delle personalità più influenti del nostro tempo, che nel libro è restituita in una mescolanza di ricordi di vita professionale («Curiosamente l’unico vaticanista che in largo anticipo fece il nome di Bergoglio tra i possibili successori di Giovanni Paolo II fu Sandro Magister, che poi divenne la penna più velenosa e ostile a Francesco durante il suo pontificato. […] L’articolo presentava il gesuita argentino in una luce tutta positiva, dipingendolo come un austero uomo di Dio, di sicura dottrina») e di fede («Il rapporto [con Bergoglio] cresceva nel tempo. Abbiamo iniziato una corrispondenza, una volta in via della Scrofa mi sono confessato da lui. Fu un’esperienza indimenticabile. Di verità e di misericordia»). Attraverso il rapporto con papa Francesco, Lucio Brunelli ci introduce, con delicatezza e stile pudicoso (il neologismo è di Francesco) in alcuni dei momenti più intimi della propria vita personale («Gli raccontavo dei miei due figli che avevo dovuto crescere da solo. Avevano 11 e 10 anni quando mia moglie ci lasciò»).
Il volume «non è il bilancio di un pontificato (l’unico bilancio davvero interessante lo farà Dio), tanto meno un’operazione agiografica che farebbe rabbrividire per primo Francesco». Vi trovano spazio pagine di raffinato giornalismo, «mestiere che non smetterò mai di amare». Gli stralci della corrispondenza con padre Bergoglio prima, e papa Francesco poi, non fanno che accrescere la curiosità per quali altre email abbiano preceduto, accompagnato e infine seguiranno la pubblicazione di questo libro. Ma soprattutto il dibattito dentro e fuori il Conclave del 2013, l’elezione di Bergoglio al soglio di Pietro, le Messe a Santa Marta, il primo viaggio apostolico in Italia a Lampedusa, la GMG in Brasile, le interviste per Tv2000 hanno il grande merito di restituire al Santo Padre quell’essere anzitutto un pastore e non un politico, più Papa e meno Pontefice. «Un Papa molto rappresentato dai media di tutto il mondo ma paradossalmente poco conosciuto nelle sue intenzioni più profonde». Un «papa da toccare», secondo la definizione del card. Tauran, tanto quanto Giovanni Paolo II era stato un papa da vedere e Benedetto XVI un papa da leggere. Ma anche e soprattutto un Francesco che è uomo perdonato, non una volta ma ogni giorno, al pari di ciascuno di noi. «Se dovessi dire quale discorso di papa Francesco considero il più bello del pontificato, non avrei dubbi. Bolivia, carcere di Palmasola, 10 luglio 2015: “Chi c’è davanti a voi? Potreste domandarvi. Vorrei rispondere alla domanda con una certezza della mia vita, con una certezza che mi ha segnato per sempre. Quello che sta davanti a voi è un uomo perdonato. Un uomo che è stato ed è salvato dai suoi molti peccati. Ed è così che mi presento. Non ho molto da darvi o offrirvi, ma quello che ho e quello che amo, sì, voglio darvelo, voglio condividerlo: Gesù Cristo, la misericordia del Padre”».
Pagine preziose per comprendere il retroterra e la continuità del pensiero teologico di papa Francesco. «Bergoglio metteva a confronto il pensiero tensionante di Agostino (sempre aperto alle sorprese della grazia) rispetto al pensiero lineal, che potremmo tradurre “lineare”, della teologia scolastica […]. Non era una pura disquisizione teologica, era la domanda su cosa può convincere esistenzialmente l’uomo moderno della verità del cristianesimo: non in prima battuta un ragionamento, ma un’attrattiva, un amore; non delle categorie concettuali ma un piacere e uno stupore».
Un pensiero sul quale e con il quale interloquire, ma che in questi anni di pontificato è troppo spesso finito oscurato dal grido belluino di alcuni ambienti avversari e dalla gazzarra scomposta di sostenitori sempre più presunti. «Pensai a come l’apparato ecclesiastico avrebbe reagito ad un papa “altro” come lui […]. Il presagio che dopo gli osanna iniziali sarebbero venuti i “crucifige”, fomentati dal potere ecclesiastico». Sempre più strattonato da lobby interne ed esterne alla Chiesa e dai peregrini interessi di parte dei cosiddetti riformatori, con risultati paradossalmente convergenti. «L’entusiasmo popolare dei primi anni iniziò ad essere corroso da mugugni e mormorii, insinuazioni e insulti. Il Papa comunista, il Papa islamico, il Papa dell’invasione, il Papa eretico. Vecchi mangiapreti e nuovi inquisitori clericali si trovarono a braccetto. Il fastidio delle élite economiche di fronte a un insegnamento irrimediabilmente altro rispetto alle logiche del “dio denaro” e le esigenze di propaganda delle nuove correnti politiche populiste si saldarono. I social dilatavano le urla».
Impossibile non cogliere alcune anticipazioni del Sinodo amazzonico nelle riflessioni dell’allora card. Bergoglio in vista della Conferenza di Aparecida del maggio 2007. «Sulla chiave di lettura credo, come Lei, che bisogna uscire dalla dialettica con la teologia della liberazione», scrive via mail, in un italiano ancora incerto, il card. Bergoglio a Lucio Brunelli il 16 aprile 2007. «Per me la chiave dovrà essere l’evangelizzazione, il kèrigma oggi nella identità di America Latina. La 5a Conferenza non dovrà pensare il fine con un documento, ma il fine sarà la “missione continentale”, il annuncio di Gesù Cristo. Senza questa missione il tutto sarà soltanto parole, parole, parole».
Con uno stile semplice e genuino, di un’ironia sottile, ma soprattutto forte di una fede cresciuta all’ombra di una riservatezza innata («Sono sempre stato un tipo timido, un po’ introverso»), nel proprio libro Lucio Brunelli restituisce, con invidiabile serenità, un Francesco nel quale si uniscono la preghiera fiduciosa che fa «dormire come un legno» nonostante le preoccupazioni, la devozione a san Giuseppe e a santa Teresa di Lisieux e la lettura delle Lettere della tribolazione, una raccolta diffusa negli ambienti gesuiti e divenuta sempre più di conforto durante gli anni difficili del papato, quando tutti i «mali che avevano già angustiato il pontificato di Benedetto XVI sono tornati di nuovo ad agitare le acque della “barca di Pietro”».
Non manca uno sguardo alla comunicazione, un campo – anzi un orto, per citare una passione dell’autore, ricordata anche nel libro – nel quale Brunelli si muove con sicura esperienza. Un elemento critico, allora come oggi, è individuato nella «moltiplicazione eccessiva degli interventi: omelie, discorsi, messaggi scritti, videomessaggi, interviste… Una inflazione di testi che rischia di svalutare, nel tempo, il valore delle sue parole […]. Con il rischio che, per sfuggire all’effetto saturazione, i media finiscano per selezionare nel grande mare delle parole del Papa solo l’espressione più “di colore” o vadano a forzare un contenuto periferico solo per trovare il titolo più ad effetto». Accanto, il pericolo di una «personalizzazione eccessiva della figura del Papa. Un’operazione mediatica che separa l’immagine del Papa dal corpo della Chiesa. Facendone quasi un leader spirituale o morale a sé stante, un personaggio che paradossalmente potrebbe stare in piedi anche a prescindere dalla fede e dal portato della tradizione cristiana».
Sviluppato attorno all’incontro – con Bergoglio, ma anche con sé stesso – nel libro di Brunelli confluiscono brevi scorci di vita di altri protagonisti (Alver Metalli, don José Maria di Paola, ormai noto ovunque come “padre Pepe”), in una coralità che non è solo uno stile letterario, ma un modo di vita e di incarcare la fede cristiana che accomuna Francesco e l’autore. «Confidò più volte la decisione di diradare i viaggi a Roma», scrive Brunelli dell’allora card. Bergoglio. «“Ci ho pregato su, non posso, ne va della mia fede”, mi diceva serissimo, lasciandomi a volte sconcertato per il tono quasi mistico che prendevano le sue riflessioni».
Con una punta di autobiografia, ci sento riecheggiare una delle prime raccomandazioni che mi sono state rivolte dopo il mio parziale trasferimento a Roma per lavoro. “Roma è piena di fede – mi disse un sacerdote – perché tutti quelli che vengono qui ce la lasciano”. A due anni di distanza, la battuta mi appare molto meno divertente e molto più profonda di quanto mi sembrò allora.
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