L’eredità è un fatto strano. Alletta, obbliga, ingombra. Forse è per questo che ognuno, nella misura in cui gli è possibile, si sceglie la propria: desidera, sfugge, svende. Ma prima di tutto, fa memoria. Perché, che si tratti di un vecchio soprammobile o del ricordo di un istante, serve trovargli un uso.
Per questo, invece di chiederci quale sia l’eredità lasciata da papa Francesco – ognuno, inevitabilmente, troverebbe la propria, diversa dalle altre –, sarebbe più saggio pensare a come utilizzare 12 anni di pontificato per il futuro che ci attende oltre la soglia anestetizzante del dolore.
Anche nella morte, la vita è il grande crocevia in cui si incontrano i cammini percorsi dal Papa in questo decennio. E non può essere un caso che questo crocevia sia anche il più minacciato. «Vita divina, vita a misura d’uomo, quella che conosce la pace del sabato». Il mondo fatto a pezzi dalla guerra, un’economia che uccide, gli scartati, società e spiritualità che talvolta hanno perduto la propria fecondità sono al centro delle meditazioni che papa Francesco ha scritto per la Via Crucis appena trascorsa.
La difesa della vita, in ogni sua fase e forma, ci ha mostrato un volto insolitamente duro di papa Francesco, che dovremmo saper fare nostro. «Le donne hanno diritto alla vita: alla vita loro, alla vita dei figli. Non dimentichiamo di dire questo: un aborto è un omicidio», ricorda per l’ennesima volta il Pontefice di ritorno da Bruxelles, nel settebre 2024. «Si uccide un essere umano. E i medici che si prestano a questo sono dei sicari. E su questo non si può discutere». Vita è la caratteristica dei giovani – «Se i giovani non saranno affamati di vita autentica, mi domando, dove andrà l’umanità?» – Vita è il fondamento della famiglia, laddove «il matrimonio è simbolo della vita, della vita reale, non è una favola».
Anche all’altro estremo dell’esistenza terrena, tanto vicino da potersi confondere, quando gli anni o la malattia sembrano avere la meglio, «la vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata. E questo principio etico riguarda tutti, non solo i cristiani o i credenti». Non è superfluo affermarlo: sussiste, infatti, «un problema sociale, reale. Quel “pianificare”, accelerare la morte», ricorda Francesco nel 2022 .
La vita è troppo spesso scartata perchè troppo spesso è incompresa. Almeno tanto quanto è impopolare sostenere la difesa della vita delle persone migranti. Governare i fenomeni sociali secondo vie legali e ordinate appartiene alla politica, ma accogliere, proteggere, promuovere e integrare – quattro dei verbi più celebri dell’intero pontificato di Francesco – appartiene all’umanità. «Perché così tanti rifugiati e migranti?», si domanda Francesco in occasione della 51a Giornata mondiale della pace, nel 2018. Dalle violenze al degrado ambientale, dalla crisi economica al desiderio di una piena realizzazione di sé, la lista delle motivazioni, come quella delle responsabilità, sarebbe lunga. Persone – uomini, donne e bambini migranti – che «alcuni considerano una minaccia», quando invece meriterebbero il pregiudizio di «uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace».
In un tempo in cui sono in molti ad interpretare la strabordanza dei governi e la protervia dei governanti come una virtù, vale la pena ricordare – come scrive Francesco ai vescovi statunitensi, nel febbraio 2025 – che «uno Stato di diritto autentico si dimostra proprio nel trattamento dignitoso che tutte le persone meritano, specialmente quelle più povere ed emarginate». Una giustizia sociale radicalmente cristocentrica, che da secoli appartiene anche alla tradizione della Chiesa attraverso la dottrina sociale. «Sta a noi ricordare al mondo che la vita umana vale per quello che è e non per quello che ha, e che le vite di nascituri, anziani, migranti, uomini e donne di ogni colore e nazionalità sono sacre sempre e contano come quelle di tutti», come sottolinea papa Francesco durante l’incontro interreligioso nella piana di Ur, durante la prima visita di un pontefice in Iraq, nel 2021.
Ancora vita, ancora morte. Anche quella del numero incalcolabile di vittime a causa delle guerre: quasi 200 mila solo nel 2024, secondo The Armed Conflict Survey. Dall’Ucraina a Gaza, dalla Siria allo Yemen, solo per citare i teatri di guerra più noti, ma in tutto il mondo sono almeno 56 i conflitti armati in atto – il numero più alto dalla seconda guerra mondiale – con 92 Paesi coinvolti in conflitti fuori dei propri confini. «Per decenni è sembrato che il mondo avesse imparato da tante guerre e fallimenti e si dirigesse lentamente verso varie forme di integrazione», riflette papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale (2020), tra i documenti archiviati più rapidamente dai media – e non solo – dell’intero pontificato. «Ma la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. In vari Paesi un’idea dell’unità del popolo e della nazione, impregnata di diverse ideologie, crea nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali».
Nella «globalizzazione dell’indifferenza» si rinviene il retroterra ideologico di una guerra mondiale combattuta a pezzi, frammenti sempre più taglienti. Più volte la voce del Papa si è alzata «in nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini», come scritto nel Documento sulla fratellanza umana firmato nel 2019 insieme al grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb. «Il primo e più importante obiettivo delle religioni è quello di credere in Dio, di onorarLo e di chiamare tutti gli uomini a credere che questo universo dipende da un Dio che lo governa, è il Creatore che ci ha plasmati con la Sua Sapienza divina e ci ha concesso il dono della vita per custodirlo».
Non è impossibile scorgervi anche l’impegno per la custodia della casa comune, l’unica che ci è stata affidata. «L’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita». È l’intelaiatura dell’enciclica Laudato si’, ma soprattutto la trama di vita che ci lega in unità, come fratelli e sorelle.
Se l’unità prevale sul conflitto, è vero anche che il tempo è superiore allo spazio, secondo due dei quattro principi enumerati da Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, il suo primo “manifesto” (2013). Nondimeno, conflitti e spazi, insieme alla personalità di Jorge Mario Bergoglio, hanno segnato il pontificato che si è concluso. «Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi», ricorda il Papa in una delle numerose interviste rilasciate nel corso di 12 anni, in questo caso a padre Antonio Spadaro per La Civiltà Cattolica (19 settembre 2013). Se attraverso le interviste Francesco si è confrontato con la tentazione di occupare spazi, di certo ne ha fatto uno degli strumenti privilegiati per avviare processi, molti dei quali ancora in corso. La “riforma della Chiesa”, cosiddetta secondo un buon grado di ottimismo e talvolta di superficialità: dalla lotta agli abusi – sessuali, ma anche di potere e di coscienza – ad una sincera valorizzazione dei laici e della donna, fino ad una sinodalità che non sia soltanto di maniera.
È probabile che negli anni a venire ci verrà somministrata una dose sempre maggiore di morte, e che per questo ci servirà sempre più vita. Siamo già chiamati ad affrontare situazioni di grave minaccia internazionale, come la guerra; ci confrontiamo con processi globali, non meno letali, che appartengono alla crisi dell’uomo prima ancora che a quella delle istituzioni, dove le crescenti offese alla vita umana e all’ambiente naturale non sono che due volti di un medesimo orrore; la Chiesa stessa è chiamata a rinnovarsi in un mondo che cambia, non per inseguirne le logiche autolesionistiche, ma per continuare ad essere profezia di salvezza e testimonianza del «Dio vivo», di un «Dio delle sorprese» che «non è un ricordo del passato», ma che «è vivo e cammina con noi». L’avvenire della Chiesa è nel campo della speranza che spera contro ogni speranza: custode della fedeltà alla tradizione e coraggiosa interprete del futuro.
Nonostante le critiche, talvolta violente, dopotutto ci tornerà utile essere “Chiesa in uscita”, missionaria ed evangelizzatrice, critica instancabile e libera da una mentalità da setta, con piedi leggeri e mani avvezze al lavoro, fuori anche da quell’asfittica comfort zone che è l’aureferenzialità. Chiesa incidentata, certamente, come accade a chi vive facendo la propria parte senza risparmiarsi: Dio avrà misericordia. «La tempesta – anche quella della pandemia del 2020 – smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita». La morte è solo un passaggio, bisogna soltanto scegliere da che parte stare.
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