Dopo l’entusiasmo interventista, il ritorno del colonialismo. Sembra di essere tornati indietro di oltre un secolo a giudicare dai toni festanti di certa propaganda. Ma la verità è che il mondo è cambiato e a rimanere con il cerino in mano (e il gas tutto attorno) saranno proprio le vecchie potenze di un continente vecchissimo.
Algeria e Angola, ma anche Mozambico, Egitto, Congo, Qatar e Azerbaigian. E poi gli Stati Uniti. Nomi esotici da mostrare sulla cartina, scalette di aerei lungo le quali si susseguono uomini della politica, poltrone dorate e sorrisi a favore di telecamera. C’è chi li chiama accordi, chi “offensiva diplomatica”, mutuando la nuova moda linguistica. Nei fatti, è il tentativo dell’Italia e di altri Paesi europei di smarcarsi dalla dipendenza dal gas russo. Un “grand tour del gas” ma non della democrazia, a giudicare dalle tappe. Da affrontare turandosi il naso, più per la volatilità dei princìpi, che non per quella del metano. Guerre più o meno recenti, guerre future e controverse situazioni dei diritti umani.
È lo stesso Mario Draghi ad aver posto, giustamente ma forse inconsapevolmente, la questione. Se per il Presidente del Consiglio italiano, infatti, non c’è alcun dubbio che «Germania e Italia, insieme ad altri Paesi che sono importatori di gas, petrolio, carbone, grano, stanno finanziando la guerra» della Russia in Ucraina, è legittimo domandarsi chi – e cosa – potrebbero finanziare d’ora in avanti. Tanto più che l’affannosa ricerca della “diversificazione” delle fonti energetiche potrebbe, almeno per il momento, finire con il sostituire l’autocrate Putin con un pugno di autocrati minori. Con conseguenze tutt’altro che imprevedibili.
Algeria
«Le autorità algerine hanno utilizzato ogni mezzo a loro disposizione per reprimere il dissenso e mettere a tacere il movimento di protesta Hirak, facendo ricorso a un grande numero di arresti e perseguendo attivisti sulla base di accuse false solo per aver preso parte a manifestazioni di protesta o per aver espresso il proprio dissenso politico». La denuncia di Amnesty International non è di quelle in grado di rassicurare sulle future prospettive di collaborazione. L’Algeria è già il secondo fornitore di gas dell’Italia dopo la Russia, e con i nuovi accordi potrebbe diventare il principale partner italiano e fra i maggiori per l’Europa.
Una posizione strategica sempre più solida, che però non ha finora garantito alla popolazione algerina un coerente e diffuso miglioramento delle condizioni di vita. Lo scollamento della politica dai bisogni della comunità ha prodotto, come nel migliore Occidente, un arretramento in termini di rappresentatività e di legittimità. Anche l’utilizzo sempre più disinvolto delle accuse di “terrorismo” è una lezione bene appresa dal mondo occidentale, applicata in Algeria a organizzazioni che danno voce a opinioni dissenzienti, come Hirak, il gruppo di opposizione Rachad e il Movimento per l’autonomia della Cabilia. La sanzione prevista resta quella estrema: la pena di morte. E non va meglio sul fronte della libertà di stampa, come dimostrano i recenti casi dei giornalisti Hassan Bouras e Mohamed Mouloudj.
Il Democracy Index (Indice di Democrazia) è una graduatoria compilata per il britannico The Economist che esamina lo stato della democrazia in 167 Paesi sulla base di cinque indicatori: processo elettorale e pluralismo, libertà civili, funzione del governo, partecipazione politica e cultura politica. Nel 2021 l’Algeria si collocava al n. 113 della lista, bollata come «regime autoritario». Per inciso, la Russia compariva a non molta distanza, al n. 124 (regime autoritario), l’Ucraina al n. 86 (regime ibrido) e l’Italia al n. 31 (democrazia imperfetta).
Sul piano religioso, l’Algeria è un Paese a netta maggioranza islamica sunnita (98%) e l’islam è religione di Stato. È garantita la libertà di culto, ma cristiani, minoranze musulmane sciite e ibadite e i pochissimi ebrei rimasti sono oggetto di discriminazioni e persecuzioni. Curiosamente, nel novembre 2019 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione sulla Situazione delle libertà in Algeria, chiedendo «la fine delle violazioni della libertà di culto dei cristiani, degli ahmadi e delle altre minoranze religiose».
Angola
Tra i Paesi a maggiore crescita economica del continente africano grazie all’abbondanza di risorse naturali, l’Angola sarebbe ora in grado di rivaleggiare con più di una nazione europea, compresa l’ex madrepatria portoghese. Una crescita economica che, anche qui, stenta ancora a tradursi in conquiste sociali e politiche.
Secondo Amnesty International, in Angola «le forze di sicurezza hanno continuato a commettere gravi violazioni dei diritti umani, comprese dozzine di omicidi, a causa di un uso eccessivo e non necessario della forza. La polizia ha violato i diritti alla libertà di espressione, mentre manifestanti pacifici sono stati arrestati e detenuti arbitrariamente. Le comunità di pastori hanno subito l’espropriazione della terra, affidata agli agricoltori a fini commerciali. Il governo ha risposto in modo inadeguato alla necessità di garantire cibo e acqua alle vittime dell’espropriazione, della siccità e dello sfollamento. L’appropriazione indebita di fondi statali ha minato la capacità del governo di alleviare le diffuse difficoltà economiche e di affrontare la crisi del settore sanitario». Il già menzionato Democracy Index colloca l’Angola al n. 122 (regime autoritario).
Congo
Da non confondersi con la quasi omonima Repubblica Democratica del Congo, ha per capitale Brazzaville. Secondo Amnesty International in Congo «prosegue la repressione delle voci critiche, con violazioni del diritto alla libertà di espressione e detenzione arbitraria di difensori dei diritti umani e attivisti della società civile. Le donne sono ancora sotto-rappresentate negli organi decisionali. Sono stati compiuti sforzi insufficienti per garantire l’accessibilità, la disponibilità e la qualità dell’assistenza sanitaria e delle strutture. Danni ambientali sono causati dalle attività di estrazione». Il Democracy Index vede il Congo al n. 137 (regime autoritario).
Il Congo esce faticosamente da anni di conflitto, anche in seguito alla contestata rielezione a presidente del generale Denis Sassou Nguesso, in carica dal 1997. Nel 2016, dopo violente proteste nella capitale, Sassou Nguesso ha ordinato l’attacco della regione del Pool, un dipartimento del Congo sud-orientale in cui la sicurezza e la libertà religiosa sono minacciate dai combattimenti tra il governo e un gruppo semi-religioso, la cosiddetta milizia Ninja, di ispirazione pentecostale. Con la ripresa degli scontri, oltre 80mila persone sono state costrette a lasciare le proprie case. Nel dicembre 2017, dopo un anno e mezzo di conflitto, è stato firmato un accordo di cessate il fuoco.
Se dal punto di vista religioso gli attriti fra le confessioni cristiane e con la crescente minoranza musulmana non hanno finora condotto ad una conflittualità diffusa, il processo di pacificazione sociale è minato da povertà, corruzione e mancanza di opportunità, che mettono a rischio il rispetto dei diritti umani.
Mozambico
Quella in Mozambico è una delle tante guerre dimenticate dai media internazionali. La miscela è di per sé esplosiva: povertà estrema, tra le maggiori riserve di gas off shore al mondo e una minoranza musulmana doppiamente discriminata, che è spesso terreno fertile per le infiltrazioni jihadiste. Gruppi che, in effetti, operano già nel Paese: è il caso di Ansar al-Sunna, i “difensori della tradizione”, formazione islamica sunnita vicina al fu Stato Islamico. Nota anche come al-Shabaab, è un’organizzazione differente rispetto all’omonimo gruppo attivo in Somalia. Simile, però, nei metodi: crimini di guerra, soprattutto l’omicidio di massa di civili in numerose occasioni, e reclutamento di migliaia di bambini soldato. Nel Democracy Index il Mozambico raggiunge la posizione n. 116 (regime autoritario).
Dopo anni di guerra civile tra il Fronte di Liberazione del Mozambico (Frente de Libertação de Moçambique – FRELIMO) e la Resistenza Nazionale Mozambicana (Resistência Nacional Moçambicana – RENAMO), la pacificazione del Paese sembrava un obiettivo realizzabile, grazie anche ai rapporti di positiva convivenza fra cristianesimo (che è maggioranza nel Paese) e islam. Recentemente, tuttavia, queste relazioni sono state messe alla prova dalla crescente insurrezione islamista, alimentata dai ribelli jihadisti che entrano in Mozambico dagli Stati confinanti o in seguito al ritorno di giovani predicatori islamici intrisi di una rigida interpretazione dell’islam, dopo aver studiato in Egitto, Kuwait, Arabia Saudita e Sudafrica.
Nondimeno, secondo Amnesty International anche «le forze di sicurezza del governo e gli agenti militari privati hanno continuato a commettere crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani. Le autorità hanno gestito male la crisi umanitaria a Cabo Delgado, minando gravemente i diritti al cibo, all’acqua, all’istruzione, all’alloggio e alla salute. La violenza contro donne e ragazze continua incontrollata. Le future mamme sono state trattate in modo disumano e picchiate, insultate e umiliate nei reparti pubblici di maternità. Le autorità hanno soffocato l’attività all’interno dello spazio civico attraverso intimidazioni, molestie e minacce contro attivisti della società civile e giornalisti». Secondo stime delle Nazioni Unite gli sfollati sarebbero almeno 740mila.
Egitto
Nell’ultimo decennio l’Egitto ha fortemente sofferto a causa dell’instabilità politica, sociale ed economica. Lavorare a nuovi accordi economici con l’Egitto senza affrontare le numerose questioni ancora in sospeso dovrebbe far storcere il naso a più di una persona di buonsenso, soprattutto in Italia.
La tragica vicenda di Giulio Regeni ha mostrato in tutta la sua violenza quella che Amnesty International definisce una «grave repressione dei diritti alla libertà di espressione e di associazione. Le autorità hanno preso di mira difensori dei diritti umani, politici dell’opposizione e altri attivisti attraverso citazioni illegali, interrogatori coercitivi, misure extragiudiziali di libertà vigilata, indagini penali, procedimenti iniqui e inclusione in una “lista di terroristi”. Le sparizioni forzate e le torture continuano senza sosta». La situazione appare doppiamente grave per le donne, spesso vittime di crimini – anzitutto sessuali – nel diffuso disinteresse delle autorità. Forse non è un caso che l’Egitto si collochi agli ultimi posti del Democracy Index, al n. 137 su 167 (regime autoritario).
Sul piano religioso, nel Paese a maggioranza islamica (oltre il 90%), per lo più sunnita, la discriminazione dei cristiani da parte delle autorità, nella legge e nella pratica, ha colpito soprattutto la comunità copta. La situazione è critica soprattutto nella penisola del Sinai, minacciata da gruppi alleati con lo Stato Islamico (Daesh).
Qatar
Il Qatar ospita la più grande base militare statunitense del Medio Oriente, Al Udeid, che ospita personale militare e aerei americani e britannici. Nel corso degli anni il Congresso degli Stati Uniti ha autorizzato lo stanziamento di milioni di dollari in cambio dell’utilizzo di questo punto d’appoggio strategico. Una collaborazione che non sembra finora aver risentito della numerose accuse di finanziamento al terrorismo e all’instabilità internazionale rivolte al Qatar.
Ancora meno pesa la sorte delle migliaia di lavoratori migranti, costretti a subire abusi di ogni genere in una sostanziale condizione di schiavitù. Il sostegno garantito dal Qatar a numerose università statunitensi ed europee, la presenza di numerosi campus universitari internazionali nei pressi della capitale Doha e l’attenzione internazionale, anche in concomitanza con importanti appuntamenti sportivi come la Coppa del mondo Fifa 2022, non hanno impedito la perpetuazione delle discriminazioni, che fanno guadagnare al Qatar la posizione n. 114 (regime autoritario) nel Democracy Index. Dietro a grattacieli, bar e locali alla moda, il Qatar rimane il Paese a maggiore presenza wahhabita al mondo, un’interpretazione dell’islam che annovera esponenti come Osama bin Laden e i Talebani.
Azerbaigian
L’unico Paese di questa lista in grado di posizionarsi ancora più in basso dell’Egitto nell’elenco del Democracy Index, al n. 146 (regime autoritario) su 167, è l’Azerbaigian. Fedele alleato della Turchia di Erdoğan, dell’Azerbaigian si è tornati a parlare non può tardi di due anni fa per il riacutizzarsi della guerra del Nagorno-Karabakh, che vede l’ex repubblica sovietica contrapporsi all’Armenia. All’indomani del conflitto, Amnesty International «è giunta alla conclusione che le forze armate dell’Armenia e dell’Azerbaigian hanno commesso crimini di guerra, come esecuzioni extragiudiziali, decapitazioni, maltrattamenti ai danni di prigionieri e profanazione di cadaveri di soldati nemici». Nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale.
Sotto il regime di Ilham Aliyev, in carica dal 2003 e figlio del suo predecessore, «sono continuate persecuzioni e molestie nei confronti dei critici del governo», prosegue Amnesty International. «Le proteste pacifiche sono state violentemente interrotte. Le restrizioni arbitrarie hanno continuato a paralizzare il lavoro dei difensori dei diritti umani e delle Ong. La violenza di genere, la tortura e altri maltrattamenti sono ancora diffusi».
Durante la guerra del Nagorno-Karabakh del 2020 i siti del patrimonio culturale e religioso sono diventati obiettivi privilegiati, primo fra tutti la cattedrale di Shusha, colpita per due volte dal fuoco dell’artiglieria. Stando all’ultimo Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo redatto da Aiuto alla Chiesa che soffre, in Azerbaigian «le sfide legate all’economia in grave difficoltà, esacerbate dalla pandemia di Covid-19 e dalla guerra contro l’Armenia, hanno creato un clima sfavorevole per la libertà religiosa». Organizzazioni per i diritti umani accusano le autorità azere di aver strumentalizzato l’epidemia di Covid-19 per appesantire la repressione del dissenso, con la normativa sanitaria impiegata come pretesto per soffocare le proteste politiche.
Stati Uniti
Anche i grandi vincitori della guerra per procura che sta straziando la popolazione civile dell’Ucraina rafforzeranno le esportazioni di gas naturale liquido verso l’Europa. E, con essa, la propria posizione di forza strategica, militare ed economica. È interessante leggere quanto scrive Amnesty International a proposito degli Stati Uniti, che pure si collocano nella parte alta della classifica del Democracy Index, al n. 25 (democrazia imperfetta). Dopo la parentesi Trump e le speranze frettolosamente riposte in Biden, «i risultati nella politica e nella pratica sono stati contrastanti. Sebbene si sia impegnata nuovamente con le istituzioni internazionali delle Nazioni Unite per i diritti umani e gli sforzi multilaterali per combattere il cambiamento climatico, l’amministrazione [Biden] non è riuscita ad adottare politiche di immigrazione e asilo rispettose dei diritti umani al confine Usa-Messico né a realizzare la sua agenda relativa ai diritti umani».
Preoccupa il numero crescente dei crimini d’odio, molti dei quali violenti, in particolare contro la comunità afroamericana e quella ebraica. Nella prima metà del 2020 si è anche registrata un’ondata di attacchi a chiese ed edifici cattolici sull’onda delle proteste del movimento Black Lives Matter. In materia di fede, però, la minaccia alla libertà religiosa assume di norma forme più subdole. La strumentalizzazione a fini politici della religione, tanto ad opera dei conservatori quanto dei progressisti, rischia di causare profonde ferite alla democrazia americana. Rivendicazioni lgbt, temi bioetici e libertà individuali sono gli attuali terreni della contrapposizione, che troppo spesso assume le sembianze di una «colonizzazione ideologica», più che di una vera opportunità di convivenza di differenze ben fondate, non violente ed espresse in ambito teologico e antropologico. Guerre, anche se combattute con armi differenti.
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Voi confondete le guerre interne di uno stato con l’invasione di uno stato a danno di un altro. Vi piace creare u gran minestrone per rendere tutto uguale. Personamente reputo l’aiuto all Ucraina in ogni modo soprattutto militare per da un segnale, sfortunatamente lo sta dando meglio l’Inghilterra e gli USA che di questi aspetti ci vede più lontano.
@SergioBulian Non ho capito