Per il bene della pace, la prima “missione” della Santa Sede sarebbe di ritrovare l’ago della bussola. Come ha fatto con la propria uno dei timonieri di questa crisi: il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.
Un piano di pace. Meglio, un servizio. Certamente non una missione (anche se recentemente in questi termini ne ha parlato il Segretario di Stato della Santa Sede, card. Parolin). È la distanza, di sostanza prima ancora che di sfumature, che separa le parole di papa Francesco sul volo di rientro dal viaggio apostolico in Ungheria da quanto rivelato nell’intervista a Elisabetta Piqué per La Nación e, ancora, da quanto recepito dai media internazionali (e, almeno in parte, dalle diplomazie).
Ago della bussola, prima che della bilancia
Una distanza che, a tratti, restituisce la sensazione di una navigazione a vista, la rotta aggiustata mano a mano che si aprono e chiudono polemiche e spazi di opportunità di qua e di là dell’Atlantico, fino al Brasile del presidente-operaio Lula da Silva. Con la Santa Sede che, prima di poter essere ago della bilancia a favore della pace, dovrebbe recuperare l’ago della bussola.
Resta il fatto, comunque, che la diplomazia vaticana è fra le più antiche al mondo e di strada, via mare e via terra, ne ha sempre fatta parecchia. Tutt’altro che in mano a degli sprovveduti, anche oggi. Certo, anche in questo caso ci si scontra con il vecchio problema della comunicazione – anzi, delle comunicazioni – prima ancora che con presunte lacune di abilità. E poi con l’altrettanto annosa questione delle reciproche competenze, che insieme alla comunicazione chiama in causa il Pontefice e la Segreteria di Stato.
Né da sottovalutare è la divergenza di vedute emersa con sempre maggiore stridore anche sul fronte interno. Non è un mistero, ad esempio, che le Chiese cattoliche in Ucraina, sia di rito orientale che latino, siano attualmente schierate su posizioni più vicine a quelle del governo Zelensky che al “servizio di pace” di Francesco, nel ritenere possibile una «pace giusta» soltanto dopo il completo ritiro – per K.O. – delle forze di invasione russe in Ucraina.
Il ruolo del mondo islamico
Ma la guerra in Ucraina ha gettato benzina sul fuoco anche nel mondo islamico. Sin dai primi mesi, infatti, l’«operazione speciale» di Putin ha diviso le guide delle comunità di diversa nazionalità ed etnia, con il rischio concreto di destabilizzare ulteriormente aree come il Caucaso e altri territori della diaspora islamica.
In concreto, numerosi musulmani combattono su entrambi i fronti del conflitto, sia per motivi di cittadinanza (20 milioni nella sola Federazione russa), sia a titolo personale (foreign fighter), sia per essere ingaggiati in uno dei numerosi gruppi mercenari in campo. È inoltre plausibile che, durante o dopo la guerra in Ucraina, alcune delle organizzazioni musulmane che combattono dalla parte ucraina saranno utilizzate dai Paesi Nato per tentare alcuni cambi di regime nei Paesi governati da dittatori filo-russi in Asia Centrale: un grattacapo non da poco per la Russia – e la Cina –, ma anche un’arma a doppio taglio per l’approvvigionamento occidentale di gas e per la stabilità globale.
Il peso di Ankara
C’è però un attore di spicco nello scenario islamico, che per giunta dà la sensazione di avere saldamente in mano almeno uno dei (tanti) timoni di questa epoca di crisi: Recep Tayyip Erdoğan. La recente conferma ai seggi consente oggi al presidente turco di riproporsi come uno fra i più credibili mediatori tra Russia e Ucraina. Non solo: il progetto di dedicare il suo prossimo quinquennio a costruire «una cintura di sicurezza e di pace» intorno alla Turchia, «dall’Europa al Mar Nero, dal Caucaso e Medio Oriente al Nord Africa», potrebbe accreditare il Sultano di Ankara come uno dei leader mondiali che sarà sempre più difficile ignorare.
Sebbene nel 2019 Erdoğan abbia conquistato il primo posto nella classifica dei 500 musulmani più influenti del mondo stilata dal Royal Islamic Strategic Studies Centre, Erdoğan non sembra in grado di offrirsi come plausibile fattore unificante nella galassia islamica. Nondimeno, il ritorno sulla scena geopolitica di uno statista musulmano di primo piano è un fattore nulla affatto trascurabile.
Dalla sua, Erdoğan ha il trinomio che ha tenuto banco fin dall’inizio della guerra in Ucraina – gas, armi e grano – e rapporti pressoché unici nello scenario mondiale con tutti i contendenti, da Mosca a Kiev, dalla Nato all’Unione Europea. Una posizione, da questo punto di vista, di netto vantaggio rispetto alla sedia scomoda occupata dal presidente cinese Xi Jinping. Tutta propaganda? Forse no, se è vero che sia Vladimir Putin che Volodymyr Zelensky (sembra in quest’ordine) sarebbero attesi in Turchia dopo il giuramento di Erdoğan del 3 giugno.
Al di là delle speculazioni, ad oggi la dice lunga sul peso di Erdoğan (e sull’ipocrisia internazionale) quantomeno la corsa alle congratulazioni via social per la sua rielezione. In pista quasi tutti i protagonisti della politica mondiale, a cominciare da Putin (primatista sul tempo), Biden e Zelensky. E se il presidente russo incensa il «contributo personale» di Erdoğan al rafforzamento delle relazioni russo-turche, Zelensky fa riferimento al ruolo della Turchia nella «cooperazione per la sicurezza e la stabilità in Europa». La stessa Unione che, finora, ha chiuso le porte ad entrambi i Paesi.
Francesco e il Sultano
“Quante divisioni ha il Papa?”, avrebbe chiesto Stalin a Jalta a chi gli ricordava il ruolo Pio XII nel mondo del secondo dopoguerra. Una battuta con cui schernire lo stato di insignificanza strategica della Chiesa. Chissà che, oggi, non se lo siano chiesto anche Putin e Zelensky. Eppure le armi non sono tutto. Bene lo sa Erdoğan, pur forte del secondo esercito per peso nella Nato.
Per dirla con l’efficacia di Ishaan Tharoor sulle colonne del Washington Post, Erdoğan «non ha le armi nucleari del presidente russo Vladimir Putin. Non ha il peso geopolitico del primo ministro indiano Narendra Modi, alla guida del Paese più popoloso del mondo. Non ha il bullismo del primo ministro ungherese Viktor Orban nell’Unione Europea, con alleati di destra negli Stati Uniti. Non ha la lunga esperienza del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel dimostrare che le voci sulla sua fine politica sono molto esagerate – almeno, non ancora. Ma il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha aperto la strada ad un percorso che lascia molti di questi demagoghi nella sua ombra». Merito di un misto spregiudicato di decisionismo, astuzia e spietatezza, insieme al favore di uno zoccolo duro di musulmani conservatori nel Paese.
Ottocento anni dopo, è ancora Francesco e il Sultano. Che la pax geopolitica di Erdoğan superi in corsa il servizio in affanno del Papa? L’esperienza ha però finora dimostrato che, prima di piacere a Mosca e a Kiev, la pace del Sultano dovrà piacere al Sultano stesso. E chissà se anche allora, sulla scrivania di Erdoğan, Zelensky dispiegherà la sua famosa cartellina.
© La riproduzione integrale degli articoli richiede il consenso scritto dell'autore.