Ovvero: l’abilità del presidente turco di muoversi sul binario doppio dell’apertura e dell’isolazionismo di matrice islamica e perché, solo capendo cos’è davvero Santa Sofia, si comprende perché Erdogan la reclami.
Che la Turchia sia al centro di complessi giochi di potere internazionali è fuor di dubbio. Negli ultimi anni lo insegnano i rapporti ondivaghi con l’Europa e gli Stati Uniti, il dialogo a mezza voce con la Russia, le vie del petrolio e quelle dei migranti, gli oscuri legami con il terrorismo, l’atteggiamento assunto dalla comunità internazionale dopo le proteste del 2013, il misterioso golpe del luglio 2016 e il referendum dello scorso aprile. Solo per citare alcuni episodi.
Alla TV, però, si scopre un’altra Turchia, dove il turismo è bene accetto e lo sport e le multinazionali prosperano. A dirlo i rappresentanti di alcune delle maggiori aziende mondiali, dal CEO di Vodafone Turkey, Colman Deegan, a quello di Nestle Turkey, Felix Allemann, senza dimenticare campioni dello sport, come il calciatore del Galatasaray Wesley Sneijder. Inquadratura a mezzobusto, atmosfera a metà fra una rivista patinata per manager e la pubblicità di un nuovo smartphone. È lo stile dei nuovi spot della campagna “Discover the potential” in onda in questi giorni in Italia e sui canali internazionali, per dire che la Turchia è “il paradiso delle opportunità”, come recita un copione al quale tutti fingono di credere, al di qua e al di là dello schermo. Segnale sempre più inequivocabile di come gli equilibri si stiano spostando sempre più ad est di un Occidente infiacchito – non solo economicamente – come dimostra anche l’Expo internazionale sull’energia in corso in questi giorni ad Astana, in Kazakistan. E scorrendo l’indice sulla cartina verso Levante passare per la Turchia è pressoché inevitabile.
Nulla da eccepire dal punto di vista economico. Ragion di Stato, anzi d’affari: niente di nuovo, senza dubbio. Così come non è una novità l’abilità del presidente turco di muoversi sul binario doppio dell’apertura e dell’isolazionismo di matrice islamica, insieme vocazione religiosa e collante sociale. Da un lato lo spot, dall’altro Santa Sofia. La basilica – perdonatemi l’accezione architettonica, oggi l’edificio è un museo – fa gola ad Erdogan da anni e chissà che il nuovo, antico vantaggio geopolitico del Paese non aiuti a far perdonare anche quest’altra prova di forza di revanscismo ottomano e permettere al presidente turco di archiviare definitivamente l’eredità di Atatürk.
Per farlo, la via imboccata da Erdogan sembra essere quella della preghiera. Non di una preghiera qualunque, naturalmente, ma all’interno della costruzione simbolo di Costantinopoli – pardon, di Istanbul – la basilica-museo di Santa Sofia, contesa da secoli dalle tre religioni che si incontrano sul Bosforo. Sull’onda dell’ennesima iniziativa di preghiera islamica avallata da Erdogan all’interno dell’edificio, in barba alla legge turca che le vieta espressamente, la stampa internazionale ne ha riferito le tappe principali della storia plurisecolare: basilica cristiana (chiesa ortodossa e brevemente cattolica) prima, moschea poi ed infine museo. Semplici passaggi di mano dettati dalle alterne fortune della storia come tanti altri (basti pensare, con esiti inversi, alle tante moschee trasformate in chiese nella Penisola iberica della Reconquista), ma che ad Istanbul sono consapevoli rappresentare un caso unico al mondo, sconosciuto o non del tutto compreso in Occidente.
Edificata per la prima volta dall’imperatore Costantino I o forse dal figlio Costanzo II, bruciata completamente due volte prima della ricostruzione sotto Giustiniano I ed in seguito danneggiata a più riprese da terremoti ed incendi, la Santa Sofia è sfuggente come la Divina Sapienza alla quale è intitolata. Una megálē ekklēsía, al tempo la chiesa più grande della cristianità, simbolo della riunificazione in chiave cristiana delle due parti dell’Impero romano, come abilmente sottolineato da Giustiniano, lo stesso della guerra contro gli Ostrogoti in Italia, della controproducente cacciata dei Vandali dal Nordafrica e dell’avorio Barberini.
Dopo lo scisma del 1054 la basilica di Santa Sofia è sede del patriarca di Costantinopoli e luogo principale delle cerimonie imperiali dei reali bizantini, nonché uno dei simboli stessi della cristianità d’Oriente e della cultura della “seconda Roma”. Emblema anche dei conflitti con i cristiani latini, saccheggiata in occasione della presa di Costantinopoli durante la Quarta Crociata e spogliata delle sue preziose reliquie. Quasi sei decenni di dominio latino, dal 1204 al 1261, una breve parentesi nel lento scorrere della storia, durante la quale la chiesa diviene una cattedrale cattolica romana.
Ben più profonde si rivelano le conseguenze della conquista musulmana della città, nel 1453. Subito convertita in moschea, la Aya Sofya non smette di essere un simbolo, dell’ultima resistenza cristiana prima, dell’espansionismo militare e religioso ottomano poi. Con l’aggiunta dei minareti e delle tombe (türbe) reali, i sultani ne fanno il modello stesso della moschea, replicata in dimensioni ridotte in varie località del vasto impero islamico. Nel XVI secolo il sultano Solimano il Magnifico fa collocare ai lati del miḥrāb, la nicchia che indica la direzione della Mecca, due colonne portate in Anatolia dopo la conquista islamica dell’Ungheria. Simbolo, di nuovo, delle mire ottomane sull’Europa e delle paure di quest’ultima. Almeno fino a quando la Turchia non decide di farne un esempio al quale ispirarsi.
Accade – una Lepanto, una battaglia di Vienna e una guerra mondiale poi – con Atatürk, ad inizio Novecento. Nel 1935, il primo presidente turco e fondatore della Repubblica di Turchia decreta che l’edificio divenga un museo. La rimozione dei tappeti svela per la prima volta dopo secoli le decorazioni del pavimento, mentre da sotto l’intonaco bianco che li copriva fanno la loro comparsa gli splendidi mosaici cristiani, che una saggia prudenza aveva deciso di risparmiare. La Santa Sofia è di nuovo lì, simbolo dell’apertura della Turchia ad un Occidente allora cristiano, insieme all’adozione del suffragio universale e a quella dell’alfabeto latino e del calendario gregoriano.
L’uso di Santa Sofia come luogo di culto è oggi ancora severamente proibito. Le pressioni religiose e politiche per cambiare questo stato di cose, soprattutto da parte islamica, non mancano e almeno dal 2003 trovano un orecchio attento in Erdogan. In quattordici anni i momenti di preghiera all’interno del museo si sono moltiplicati, così come l’attenzione del Presidente turco per le memorie ottomane. Difficile non ricollegarvi anche l’esproprio di almeno una cinquantina di chiese, monasteri e cimiteri siro-ortodossi disseminati sul territorio del comune di Mardin, nella regione di Tur Abdin, riferito alcuni giorni fa da organi di stampa locali. Le strutture sono state affidate alla Presidenza degli affari religiosi, il Diyanet. In alcune recenti dichiarazioni Erdogan ha fatto chiaramente intendere di ritenere quello kemalista un periodo che «sta per finire. Punto e basta». E anche di questa nuova fase storica Santa Sofia è già un simbolo.
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1 commento su “La Turchia di Erdogan, fra Santa Sofia e il “paradiso” della TV”