La tenerezza che cambiò l’arte e il mondo. L’icona, Bisanzio e la Madre di Dio

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La tenerezza è riuscita a farsi strada anche in una delle espressioni teologiche, artistiche e culturali tradizionalmente più codificate come è l’icona della tradizione orientale. Con ciò, uno dei fenomeni spirituali ed artistici che meno tendeva a manifestare i sentimenti giunse a produrre opere di intenso slancio emotivo.

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Alla base dell’inscindibile legame fra teologia e arte che caratterizza l’icona della tradizione orientale – e delle numerose diatribe che ne animarono la storia – sta il concetto della circoscrivibilità dell’umanità del Cristo in immagine e dunque la fede stessa nell’Incarnazione. Su queste basi, non stupisce che particolare rilievo sia stato dato alla Theotókos, la Madre di Dio.

Dopo l’iconoclastia che caratterizzò a più riprese l’impero bizantino fra l’VIII e il IX secolo, nell’arte della Cristianità orientale si rafforzò il legame fra teologia e scrittura delle icone, interpretate sempre più come forme di rappresentazione e di conoscenza del divino. Accanto al moltiplicarsi dei tipi iconografici, molti dei quali aventi come soggetto la Madre di Dio, dalla seconda metà del XII secolo si assistette ad un profondo mutamento rispetto ai tradizionali valori dell’estetica bizantina. Le figure sacre, sino a quel momento codificate in una ieraticità regale e disumanizzante, si animarono di sentimenti, provati e suscitati. Infranta la divina alterità e introdotto nelle icone il pathos – e la sympátheia – le figure sacre tendono una mano alla fragilità dell’uomo.

Uno dei tipi iconografici emblematici di questo radicale mutamento è la Madre di Dio Eleousa, o Madre di Dio della Tenerezza. Originaria di Costantinopoli, la fortuna di questa iconografia – già presente tra X e XI secolo, con particolare diffusione dal XII – è legata a due famose riproduzioni, fra le quali l’icona portata nel 1136 a Vladimir, residenza dei granduchi di Russia, oggi probabilmente la più venerata icona d’Oriente.

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In essa Maria stringe a sé il figlio, premendone una guancia contro la propria, mentre questi le cinge il collo. Un atteggiamento tanto naturale ed intimo quanto di fondamentale rilevanza teologica, nell’espressione del legame d’amore fra la Madre e il Figlio di Dio. Affini per spirito, ma con precise differenze compositive, sono i tipi iconografici della Panaghía Kykkotissa, la Tutta santa del Monastero di Kykkos a Cipro; la Panaghía Glykophilousa, letteralmente colei che bacia dolcemente il figlio; e le raffigurazioni della Panaghía Strastnaia e della Vergine di Pelagonia. In esse la tenerezza cede progressivamente il passo al dolore materno nella prefigurazione della Passione di Cristo come massima espressione dell’amore di Dio per gli uomini. Corrispondente visivo degli inni e dei sermoni sull’amore e la tristezza della Vergine per il sacrificio salvifico del figlio, in questi tipi iconografici l’intima prossimità dei volti e il tenero gioco delle carezze, combinate alla posa scomposta del Bambino – con il collo, le braccia e le gambe scoperte – creano un complesso gioco fra vita, infanzia e morte.

«In ognuno di questi “più piccoli” è presente Cristo stesso. La sua carne diventa di nuovo visibile come corpo martoriato, piagato, flagellato, denutrito, in fuga… per essere da noi riconosciuto, toccato e assistito con cura» (Papa Francesco, Bolla di indizione del Giubileo straordinario della misericordia Misericordiae Vultus, Roma, 11 aprile 2015, 15). Nel Cristianesimo, infatti, la tenerezza non è semplicisticamente ridotta a smielato sentimentalismo, riservato all’infanzia di Cristo, ma interroga profondamente sulla croce. Non è dunque un caso che anche nell’arte orientale la Vergine torni a posare il proprio viso su quello del figlio in alcune delle scene chiave della Passione, come la Deposizione dalla croce e il Lamento sul Cristo morto. Se in esse il figlio che cingeva il collo della madre giace ora esanime fra le sue braccia, nell’ora della morte la tenerezza di Maria resta la medesima: Cristo, Dio e Salvatore, si abbandona uomo alla madre, che ne stringe e accarezza il corpo con la dolcezza delle innumerevoli madri nella storia dell’umanità.

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Dal IX secolo, la volontà di riaffermare un dogma – quello dell’Incarnazione – e di rappresentare la natura umana del Cristo in difesa del culto delle immagini, condusse nell’arte cristiana alla rottura del velo di separazione fra divinità e umanità. Non stupisce che la principale figura ad essere coinvolta in questo cambiamento sia la Madre di Dio e che a strappare il velo della divina alterità sia l’amore. Amore di una madre quando stringe a sé il proprio figlio per cullarlo o piangerlo nella morte. Amore di un «Dio potente che ha creato l’universo», la cui potenza infinita «non ci porta a sfuggire alla sua tenerezza paterna, perché in Lui affetto e forza si coniugano. In realtà, ogni sana spiritualità implica allo stesso tempo accogliere l’amore divino e adorare con fiducia il Signore per la sua infinita potenza» (Papa Francesco, Lettera Enciclica Laudato si’, Roma, 24 maggio 2015, 73).

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Nell’immagine: Icona della Vergine Eleousa, tardo XII secolo, Atene, Museo bizantino.

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