Domenica 5 dicembre 2021. IV Domenica di Avvento. L’ingresso del Messia. Commento al Vangelo di rito ambrosiano, di don Paolo Alliata.
✠ In quel tempo. Il Signore Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: «Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”». Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno». Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».
(Lc 19, 28-38)
Negli aristocratici tempi andati esisteva un vasto simbolismo pittorico di tutti i colori e i gradi dell’aristocrazia. Quando suonò la grande tromba dell’uguaglianza, quasi subito fu commesso uno dei maggiori errori nella storia dell’umanità. Infatti, tutta questa fierezza e questa vivacità, tutti questi simboli imponenti e colori fiammeggianti, avrebbero dovuto essere estesi al resto degli uomini. Il tabaccaio avrebbe dovuto avere uno stemma, e il formaggiaio un grido di guerra […]. Invece di fare questo, i democratici commisero il terribile errore – un errore alla base di tutto il male moderno – di ridurre anziché aumentare la magnificenza umana del passato. Al cittadino comune non dissero, come avrebbero dovuto fare: “Tu vali quanto il duca di Norfolk”; invece, usarono la formula democratica, ma più meschina: “Il duca di Norfolk non è meglio di te”.
(G. K. Chesterton, L’imputato)
Addirittura la radice di tutti i mali della modernità – ammicca Chesterton nel suo piglio paradossale. Di cosa sta parlando? Del fatto che non si è accompagnato il popolo d’Inghilterra a prender coscienza della propria dignità. Ogni tabaccaio dovrebbe avere un suo stemma di casata, ogni netturbino il suo canto di battaglia. Dovrebbero esser tanto fieri di stare al mondo e di contribuire con il loro lavoro alla sua vittoria sul caos sempre incombente da non sentirsi inferiori alle casate nobiliari. Non perché l’aristocrazia sia in fondo molto plebea, ma perché la plebe è in fondo della nobile stirpe dei re.
Gesù entra a Gerusalemme acclamato da “tutta la folla dei discepoli” come il re di Israele. Luca e gli altri evangelisti sottolineano che Gesù ha scelto con molta cura il modo di farvi il suo ingresso. Notoriamente non appartiene a famiglia aristocratica, non è neanche figlio di sacerdoti; viene dal Nord, dalla Galilea, come dire da luoghi sinistri e periferici. E però il rabbino e profeta galileo, per una volta, viene allo scoperto e dichiara apertamente la sua messianicità. Decide di entrare nella città dell’Altissimo come i re antichi in tempo di pace, seduto su un asino, lasciando che le acclamazioni salmiche dei discepoli lo dichiarino ai villaggi nei pressi di Gerusalemme e poi alla Città Santa.
In questo modo riscrive consapevolmente, nella concretezza dei fatti, le parole che il profeta Zaccaria aveva proclamato qualche secolo prima: “Dite alla figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina, su un puledro figlio di bestia da soma” (Zc 9,9).
Nel campo dell’araldica Gesù avrebbe scelto per sé l’immagine dell’asino. Se gli avessero proposto il leone rosso di Scozia, Gesù avrebbe guardato altrove; se gli avessero messo davanti il drago verde di certe casate nobiliari avrebbe sbuffato annoiato. Per quanto mi riguarda – dice – la mia scelta è fatta, l’asino è il mio cavallo di guerra, il suo raglio è il mio canto di battaglia.
L’asino, immagine della mitezza e dell’umiltà nella grande tradizione popolare, è nel mondo biblico l’emblema della regalità in tempo di pace. Il Messia di Israele non ha bisogno della forza del cavallo per sentirsi forte. A lui basta l’asino. Perché, scrive sempre Chesterton, “Ad essere umili sono sempre le persone sicure”.
Sulla via dell’umiltà, dietro al solido Messia di Israele, il Signore ci accompagni.
Don Paolo Alliata
Don Paolo Alliata. Nato a Milano nel 1971, dopo la laurea in Lettere classiche all’Università degli Studi di Milano, viene ordinato sacerdote nel 2000 dal card. Carlo Maria Martini. Attualmente è vicario della comunità pastorale Paolo VI per la parrocchia di Santa Maria Incoronata a Milano. Autore di testi teatrali sull’Antico e sul Nuovo Testamento, è responsabile dell’Ufficio per l’Apostolato Biblico della Diocesi di Milano. Fra le sue pubblicazioni, Dove Dio respira di nascosto. Tra le pagine dei grandi classici (Milano, Ponte alle Grazie, 2018) e C’era come un fuoco ardente. La forza dei sentimenti tra Vangelo e letteratura (Milano, Ponte alle Grazie, 2019). Da due anni le sue omelie sono raccolte su un canale YouTube.
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