La Parola, la Chiesa, il mondo. Commento al Vangelo ambrosiano del 4 agosto 2019

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4 agosto 2019. VIII Domenica dopo Pentecoste, anno C. Commento al Vangelo, di don Ezio Fonio.

Nel rito ambrosiano, in questa ottava domenica dopo Pentecoste dell’anno C viene proclamato il passo del Vangelo sul tributo a Cesare.

Vangelo della Messa (Mateo 22, 15-22)
In quel tempo. I farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo il Signore Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro.
Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono.

Commento
Il passo del tributo a Cesare è uno dei più famosi e citati del Vangelo. Il contesto è quello dei tentativi dei farisei di trovare argomenti per accusare Gesù di fronte al tribunale romano e toglierselo di mezzo. Essi temevano che la opera di Gesù potesse danneggiare la nazione giudaica, che godeva di una certa autonomia sotto la dominazione romana. Possiamo qui vedere che la religione veniva strumentalizzata dai farisei per motivi politici, come elemento identitario della nazione, anziché come progetto di Dio per la salvezza di ciascuno. È una tentazione che si ripete nei secoli e accade anche oggi nel nostro Paese. Va notato, peraltro, che gli stessi farisei ritengono che Gesù sia un maestro che insegna secondo verità, cioè che insegni fedelmente la via di Dio, senza compromessi con nessuno (vedi Matteo 22, 16).

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Ci si può domandare come mai Gesù nella risposta data ai farisei abbia fatto riferimento all’immagine e all’iscrizione dell’imperatore sulle monete per richiamare al dovere di pagare le imposte. In proposito dobbiamo ricordare che maneggiare le monete con l’effigie dell’imperatore costituiva una forma di idolatria. Infatti, l’imperatore pretendeva di essere considerato una divinità. Gli esattori delle imposte, maneggiando le monete, rendevano implicitamente omaggio al genio dell’imperatore e perciò erano chiamati “pubblicani”, cioè pubblici peccatori, oltre al fatto che, avendo essi il compito di stabilire l’entità dell’imposta, di solito la tenevano più alta del giusto per guadagnarci di più sulla percentuale di loro spettanza per il servizio reso. I farisei si sarebbero aspettati che Gesù rispondesse loro che non è lecito pagare il tributo a Cesare, e in questo modo avrebbero potuto accusarlo di fronte al governatore romano Pilato di indurre il popolo alla ribellione e quindi farlo condannare a morte.

Invece Gesù, come in altre occasioni, non dà una risposta diretta che avrebbe potuto essere piuttosto questa: non solo è lecito, ma è anche doveroso pagare il tributo a Cesare, perché lo Stato assicura dei servizi ai propri sudditi. Questo principio è valido anche se lo Stato è iniquo in alcuni settori ed è il motivo morale per cui i cristiani devono pagare le imposte. Gesù, dando la risposta, aggiunge di dare a Dio quanto gli compete, quindi di rendere a Dio il culto e l’osservanza della sua Legge. In questo modo Gesù ribadisce la fedeltà al suo popolo e la lealtà verso i Romani per cui i farisei non possono accusare Gesù di fronte al tribunale romano e per il momento sono costretti a desistere dal loro proposito (vedi Matteo 22, 19-21). Possiamo domandarci se la risposta di Gesù sia solo una scappatoia o segni un contrasto tra lui e gli zeloti che concepivano il regno di Dio come sostitutivo di un potere pagano. La risposta sarà data dallo stesso Gesù quando a Ponzio Pilato dirà che il suo regno non è di questo mondo (vedi Giovanni 18, 33-38).

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Sul dovere di pagare le imposte allo Stato dobbiamo ricordare che, nonostante la risposta data da Gesù, nella Chiesa primitiva, come nell’attuale, non mancarono le discussioni come si desume dagli interventi degi apostoli: Lettera ai Romani 13, 1-7; Seconda Lettera a Timoteo 2, 1-2; Lettera a Tito 3, 1; Prima Lettera di Pietro 2, 13-15.
Invece, nell’attuale dibattito politico in Italia, il detto di Gesù sul tributo viene utilizzato a sproposito dai cattolici simpatizzanti per una parte politica oggi al Governo per affermare che bisogna tenere separato quanto si deve a Dio (il culto e gli impegni morali privati del buon cristiano) dall’osservanza delle leggi dello Stato. In particolare, essi fanno riferimento a quegli interventi del Magistero della Chiesa che si riferiscono all’accoglienza dei migranti come ad una indebita interferenza della Chiesa negli affari interni dello Stato, per esempio laddove vengono presi provvedimenti per impedire lo sbarco di naufraghi in un porto italiano. Dimenticano essi che l’obbligo morale di obbedire alle disposizioni dell’autorità vige quando esse sono secondo la volontà di Dio, come affermarono Pietro e Giovanni di fronte alle autorità del Tempio di Gerusalemme (vedi Atti degli apostoli 1, 1-19). Ora, nel Vangelo, in riferimento all’accoglienza troviamo un’opera di misericoria corporale su cui tutti gli umani saranno giudicati (vedi Matteo 25, 35.43). Tra l’altro, nello specifico, vi sono norme internazionali che regolano la materia e pure leggi dello Stato, a cui pure i ministri della Repubblica devono sottostare. Fa specie che lo stesso criterio di tenere separati per i cristiani i doveri verso Dio da quelli verso lo Stato non venga utilizzato dal più alto esponente di quella parte politica quando nei comizi giura sul Vangelo e brandisce la corona del Rosario, atteggiandosi da devoto.

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In conclusione, diremo che il cristiano non deve estraniarsi dalle realtà di questo mondo, ma trasformarle dal di dentro. Chiare indicazioni al riguardo sono state date dal Concilio Ecumenico Vaticano II con la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes.

Don Ezio

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2 commenti su “La Parola, la Chiesa, il mondo. Commento al Vangelo ambrosiano del 4 agosto 2019”

  1. Un invito agli uomini di Chiesa a considerare sinceramente la condizione nostra, esortando la costituzione straordinaria, entro un decennio, di un “sinodo sull’Italia”. Il problema italiano non consiste affatto, per quanto comunque attuale e radicato nella storia nazionale almeno dagli anni 90, nell’interdizione navale di autentici negrieri contemporanei, quali sono alcuni natanti nel Mediterraneo, ma invece la corruzione, che è tra le peggiori del mondo occidentale; l’accentramento politico e l’assenza di un adeguato federalismo, trattato peraltro anche da Rosmini; la debole mobilità sociale, garante cardine della salute della democrazia repubblicana; la cosiddetta Questione Meridionale, attuale dal 1861 ad oggi (è sufficiente pensare all’assenza di medici al sud o alla scandalosa ferrovia jonica attuale, per evitare di scendere sempre nella solita criminalità organizzata e nella persistente disoccupazione); l’ordinamento parlamentare, arrugginito e novecentesco, anziché quello presidenziale; la denatalità; la scelta scolastica precoce a tredici anni; la povertà in 1,8 milioni di famiglie italiane. Non mi pare che, traducendo gli insegnamenti del Vangelo nell’Italia di oggi, si stia combattendo molto contro i veri problemi italiani, anzi sovente neppure si squittisce e ci si “tura il naso” conservando un diabolico status-quo da 2.8 milioni di depressi (2015-2017) e circa 4000 suicidi all’anno, senza contare l’allarmante tossicodipendenza tra i giovani. Trasformare il mondo al suo interno, come ricorda il commento alla lettura, ritengo sia importante, purché completamente e non solo parzialmente secondo le sue prerogative, oppure secondo i suoi rapporti di forza. Proprio per questo abbiamo l’opera di Gesù.

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    • Caro Mattia,
      mi scuso nel rispondere solo ora al suo commento gradito e che condivido appieno. Unica cosa, secondo l’ISTAT i poveri nel nostro paese sarebbero 5 milioni e non 1,8 milioni. Probabilmente lei intende quelli che non hanno proprio nulla, mentre i 5 milioni sono coloro che hanno un reddito insufficiente per arrivare alla fine del mese.

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