17 febbraio 2019. Domenica VI dopo l’Epifania, anno C. Commento al Vangelo, di don Ezio Fonio.
Ricordiamo che, nel rito ambrosiano, in questa domenica viene trattato il tema di Cristo signore delle malattie ed amante degli uomini (cf la premessa che ho scritto al commento di domenica 3 febbraio). La pericope evangelica dell’anno C è quella guarigione dei dieci lebbrosi.
Vangelo della Messa (Luca 17, 11-19)
In quel tempo. Lungo il cammino verso Gerusalemme, il Signore Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
Commento
Il miracolo della guarigione dei dieci lebbrosi non è solamente un segno della benevolenza di Gesù nei confronti dei malati, ma ha un ulteriore significato. Infatti, occorre ricordare che la lebbra, nella mentalità degli ebrei, era considerata una punizione divina per qualche peccato personale o della famiglia. I lebbrosi venivano confinati in villaggi dove non potevano avere contatto con le persone sane che, non solo avrebbero corso il rischio del contagio, ma soprattutto sarebbero incorsi in una impurità legale, da cui avrebbero dovuto purificarsi con abluzioni rituali. Evidentemente si trattava inizialmente di una norma igienica cui il precetto religioso conferiva una forza vincolante.
Oggi una legge dello Stato trova la sua forza coercitiva se prevede delle sanzioni, per il giudaismo, che non faceva distinzione tra società civile e società religiosa, la sanzione era di tipo religioso, e, non essendoci medici laureati a quel tempo, erano i sacerdoti ad esercitare i compiti che oggi spettano all’Ufficio d’Igiene. Data l’importanza della lebbra, con cui si indicavano in generale le malattie della pelle, il Levitico vi dedica due capitoli: il 13° e il 14°.
I dieci lebbrosi invocano da Gesù la guarigione, tenendosi a distanza come prescriveva la legge (Levitico 13,45-46). Gesù ordina loro di presentarsi ai sacerdoti, come stabilito dalla legge (14,1-7) ed essi guariscono durante il viaggio. Notiamo qui come Gesù non cerca la popolarità nei miracoli, ma agisce in modo discreto, senza farsi notare. Solo uno dei dieci lebbrosi guariti torna indietro a ringraziare, gli altri nove evidentemente ritenevano la guarigione un loro diritto, essendo essi giudei osservanti della legge. Gesù fa notare che l’unico lebbroso tornato indietro per “rendere gloria a Dio” fosse un samaritano, cioè uno straniero.
Per rendere l’idea, i samaritani erano considerati come dai più in Italia vengono considerati gli zingari, anche quelli che sono cittadini italiani. Gesù congeda il samaritano guarito, sottolineando che la sua fede l’ha salvato. Notiamo che Gesù non dice che il samaritano è venuto a ringraziarlo, ma per rendere gloria a Dio. Il rimando dell’opera di Gesù è sempre a Dio Padre che lo ha mandato. Anche i santi non si sono mai vantati dei miracoli compiuti e a chi li ringraziava, dicevano di aver solo pregato Dio perché intervenisse (così per esempio diceva don Bosco).
Possiamo domandarci ancora in che cosa consista la “gloria di Dio”. Il primo Testamento presentava la gloria di Dio, come la sua potente presenza sulla terra. Tipica l’espressione: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria (Isaia 6,3)», entrata nella liturgia eucaristica. Con la venuta di Gesù la gloria di Dio assume un valore superiore e con sant’Ireneo di Lione diciamo che la «gloria di Dio è l’uomo vivente» (Trattato contro le eresie, Libro IV, 20,5-7), in quanto la potenza di Dio rende l’uomo partecipe della vita divina. E allora comprendiamo perché Gesù dice al samaritano che la sua fede l’ha salvato. Si tratta qui non della fede nella capacità taumaturgica di Gesù, ma nel fatto che il samaritano ha riconosciuto in Gesù l’opera di Dio. E per salvezza (dal latino salus) qui s’intende non la salute (= liberazione da un male fisico), ma il vero “benessere” della persona umana, la vita divina.
L’episodio del samaritano guarito offre quindi a Gesù l’opportunità di condannare il micidiale legalismo di molti farisei del suo tempo. Si tratta di una deviazione della virtù della religione che era presente anche nella Chiesa primitiva, se la stessa cosa viene condannata dall’apostolo Paolo nella lettera ai cristiani di Roma (9,30-32; 10,3). Un legalismo che è presente anche ai giorni nostri, sebbene in forma residuale rispetto a quello che ho potuto vivere cinquant’anni fa, quando era più importante per una donna presentarsi a Messa con un vestito bello che non partecipare alla stessa Messa (ricordo che mia madre, pure donna devota, tenne a casa mia sorella dalla Messa domenicale perché non aveva pronto un abito adeguato alla circostanza).
Un legalismo che sopravvive però ancor oggi quando un fedele ritiene più importante partecipare alla Messa festiva che non accogliere Gesù nei poveri, che oggi sono gli immigrati, gli sfrattati, i senza fissa dimora; un legalismo che giunge a non riconoscere l’alto Magistero di Francesco che cerca di rendere credibile almeno per sé quel titolo di servus servo rum Dei che papa Gregorio I attribuì per sé e i suoi successori nel 587/588; un legalismo che viene sfruttato oggi politicamente da un partito che fa della religione cattolica un uso improprio e blasfemo per difendere un’identità culturale da un’immaginaria invasione islamica cui lo stesso Pontefice e i partiti della sinistra sarebbero conniventi.
Don Ezio
Nato a Caltignaga (No) il 12 febbraio 1953, mostra un precoce interesse per la comunicazione, coniugando opere parrocchiali, impegno sociale e la cronaca per il settimanale cattolico L’Azione e per il telegiornale cattolico Teleradiotrasmesse. Spiccata la passione per l’ambiente, che nel 1976 lo vede tra i fondatori dell’Associazione “Pro Natura Novara”, nella quale mantiene tutt’ora un ruolo attivo. È stato vice-presidente della Federazione nazionale “Pro Natura”. Laureato in Scienze biologiche, da sacerdote salesiano svolge il proprio ministero in diverse case del Piemonte e in Svizzera, dove insegna matematica e scienze nelle scuole medie. Per trent’anni si occupa del Museo Don Bosco di Storia Naturale e delle apparecchiature scientifiche del liceo Valsalice di Torino. Nel 2016 fonda a Novara il Museo scientifico-tecnico “Don Franco Erbea”. Dall’ottobre 2018 è incaricato della Biblioteca salesiana ispettoriale nella Casa madre salesiana di Valdocco, in Torino.
Nell’immagine: Cristo Redentore in trono, IV-VIII sec. con restauri del XVIII sec., Milano, Basilica di Sant’Ambrogio (particolare).
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Buongiorno don Ezio,
leggo sempre con molto interesse questo blog e la sua rubrica! Anche oggi ho trovato le sue riflessioni stimolanti, ma volevo capire una cosa. Quando nell’ultimo capoverso lei scrive “Un legalismo che sopravvive però ancor oggi quando un fedele ritiene più importante partecipare alla Messa festiva che non accogliere Gesù nei poveri, che oggi sono gli immigrati, gli sfrattati, i senza fissa dimora.”, intende dire che le buone azioni, l’aiutare il prossimo e i bisognosi sono più importanti che andare a Messa?
Grazie,
Stefania
Esatto. Non solo questo: Gesù stesso dice: “23 Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24 lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Matteo 5,23), che io nelle omelie spiegavo così e adesso non posso più dirlo, perché mia sorella è mancata: Io ho una sorella a Milano, se (ma non è mai stato vero nel mio caso) sono in lite con mia sorella e posso prendere il treno la domenica per andare a riconciliarmi con lei, è meglio che non vada a Messa e vada a riconciliarmi con mia sorella. A significare questo, nel rito ambrosiano vi è lo scambio del segno della pace prima dell’offerta dei doni per il sacrificio con l’invito alla riconciliazione. Il farlo, mentre si è in lite con un parente a casa, non è più un atto di culto, ma una falsità, quindi andare a Messa diventa in questo caso un peccato. Venendo a noi, Gesù si incontra tanto nell’Eucaristia quanto nei poveri. Che l’aiutare il prossimo sia più importante di andare a Messa non lo dico io, ma Gesù: “28 Allora si accostò uno degli scribi che li aveva uditi discutere, e, visto come aveva loro ben risposto, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29 Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; 30 amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. 31 E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi». 32 Allora lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; 33 amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34 Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». Infine, è sulle opere di misericordia corporali che verterà il giudizio finale (cfr. Matteo 25). Il dovere di andare a Messa rimane per il cattolico che non abbia impedimenti di forza maggiore (la salute, il lavoro festivo sociale, l’assistenza di un malato o di infanti, ecc.), ma è valido nel contesto precisato, altrimenti andarci è un’ipocrisia. La ringrazio Stefania della sua domanda che mi ha dato la possibilità di precisare.