15 settembre 2019. III domenica dopo il martirio di san Giovanni il precursore, anno C. Commento al Vangelo, di don Ezio Fonio.
In questa III domenica dopo il martirio di san Giovanni Battista nell’anno C al Vangelo si legge un insegnamento di Gesù sul valore della sua predicazione.
Vangelo della Messa (Giovanni 5,25-36)
In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno. Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso, e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna. Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera. Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce. Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato».
Commento
Gesù risponde all’incredultà dei suoi critici affermando la validità del suo insegnamento in quanto essa è testimoniata dalle opere che Dio Padre gli ha dato da compiere. All’inizio del suo ragionamento, Gesù annuncia che è giunta l’ora della salvezza, cioè il tempo in cui i morti di tutte le genti, tali in quanto morti alla vita di grazia a causa del peccato originale, avrebbero udito la voce del Figlio di Dio e, ascoltandola, avrebbero ottenuto il dono della vita eterna. In realtà si tratta di un ascolto che comporta il dovere di mettere in pratica ciò che si è ascoltato, e per vita eterna s’intende la stessa vita trinitaria che Gesù, nostro fratello, ha in comunione con il Padre e lo Spirito Santo.
La partecipazione di un così grande dono costituisce l’essenza del messaggio cristiano. Gesù procede poi nel dire che, come Figlio, ha ottentuto dal Padre la vita in se stesso ed anche il potere di giudicare, in quanto “Figlio dell’uomo”, espressione che nel Libro di Daniele, cap. 7, versetti 13-14 indica il Messia. Il giudizio di Dio è un giudizio veritativo, in quanto rivela ciò che il singolo è, quello universale avviene dopo la risurrezione dei corpi, ed è adeguato al vissuto della persona: chi ha operato il bene avrà il dono della vita, intesa come la vita eterna che è la vera vita, e chi ha operato il male otterrà la condanna. L’immagine dell’uscita dai sepolcri vuole indicare che la salvezza non riguarda soltanto lo spirito, ma l’intera persona con la propria identità corporea, sebbene glorificata, come quella di Gesù dopo la risurrezione. È evidente che si tratta di corpi nuovi e non di ricrescita dei tessuti attorno a ciò che resta di uno scheletro, altrimenti sarebbe un guaio per quelle persone i cui resti si sono dispersi per cause naturali o perché cremati. A questo riguardo, con la cremazione certamente si perde il simbolo dell’attesa della risurrezione, ma va detto che in passato tale pratica era proibita dalla Chiesa Cattolica non per questo motivo, ma perché praticata generalmente dai massoni e in generale dai non credenti che rifiutavano anche il funerale religioso.
Tornando all’insegnamento di Gesù, per chi non ha il dono della vita eterna si parla di una risurrezione di condanna, quindi sempre di vita si tratta, ma non è vera vita perché l’uomo è ontologicamente creato per Dio non per una vita lontano da Dio, che chiamiano con il termine “inferno”, di cui si parla espliticamente in tanti discorsi di Gesù. Negare l’esistenza dell’inferno, come sostengono i Testimoni di Geova, significa collocarsi fuori del Cristinesimo. Gesù ci tiene a sottolineare che non è autonomo nel giudicare, non cerca la sua volontà ma quella del Padre che lo ha mandato, né potrebbe essere diversamente a causa dell’unione ipostatica con la natura divina che possiede e in questo senso non può fare nulla da sé. Con il termine “condanna” non si indica una punizione data da Dio, ma piuttosto il rispetto, per quanto doloroso, di una scelta fatta dall’uomo. Insomma, all’inferno l’uomo va con le proprie gambe, se proprio ci vuole andare. Che la scelta tra il bene e il male comporti due esiti diversi, salvo il possibile pentimento per la seconda, è dottrina della fede. Il negare l’esistenza dell’inferno o ritenerlo vuoto è un’eresia.
Infine, il divino Maestro chiama come testimone del suo agire nella verità le opere che il Padre gli ha dato da compiere (i miracoli e gli esorcismi), ricordando che la testimonianza delle opere è superiore a quella, pur valida, di Giovanni Battista, in quanto quella fu limitata nel tempo e senza l’autorevolezza che solo Dio può avere. Alla testimonianza delle opere del Padre molti dei contemporanei di Gesù non vollero credere nonostante l’evidenza dei fatti, sia per quanto riguarda i miracoli sia per quanto riguarda le liberazioni degli indemoniati, ritenendo almeno per alcuni che Gesù li compisse in nome di Beelzebul, capo dei demoni (vedi Matteo 9, 32-34 e 12,21-25). La stessa cosa avviene oggi per i miracoli di Lourdes o per quelli operati per intercessione dei santi, nonostante le dichiarazioni mediche giurate da commissioni indipendenti, o per gli esorcismi, con la variante di negare l’esistenza del diavolo.
Don Ezio
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