13 ottobre 2019. VII domenica dopo il martirio di san Giovanni il precursore, anno C. Commento al Vangelo, di don Ezio Fonio.
In questa VII domenica dopo il martirio di san Giovanni Battista nell’anno C al Vangelo si proclama la conclusione del “discorso parabolico”.
Vangelo della Messa (Matteo 13, 44-52)
In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
Commento
Il capitolo XIII del Vangelo secondo Matteo è dedicato al cosiddetto “discorso parabolico”, cioè ad una raccolta di “parabole del regno” che Gesù ha raccontato durante la sua predicazione. Si tratta di parabole che riguardano la centralità del regno di Dio nella predicazione di Gesù. Notiamo che nel Vangelo secondo Matteo si usa l’espressione “regno dei cieli” che è l’equivalente dell’espresione “regno di Dio” usata dagli evangelisti Marco e Luca. Le due espressioni si equivalgono nel significato: san Matteo, per non urtare i destinatari del suo Vangelo, che erano cristiani di origine giudaica, usa l’espressione “regno dei cieli” in luogo di quella di “regno di Dio”, tenendo presente l’uso dei giudei che non pronunciavano mai la parola “Dio”, in ebraico Yhvh (leggi: Jahvè), per non correre il rischio di peccare contro il secondo precetto del Decalogo, «Non nominare il nome di Dio invano». I “cieli” rappresentano, nella visione dei popoli antichi, la sede delle divinità del bene, quindi per il Giudaismo indicano la sede di Dio. Poiché non abbiamo le preoccupazioni di san Matteo, useremo l’espressione “regno di Dio”. Con essa non s’intende una realtà analoga a quella dei regni terreni, ma la sovranità di Dio su tutte le cose. Questa sovranità nei confronti dell’Uomo implica un rapporto di amore e non di sudditanza e l’amore è quello trinitario, per cui il regno di Dio si realizza qui in terra ogni qualvolta si mettono in pratica i principi cristiani nella società umana, che poi si realizzeranno definitivamente nella vita eterna. Allora il regno di Dio coinciderà con il paradiso.
Nel rito ambrosiano, nella VII domenica dopo il martirio di san Giovanni il precursone viene proclamata nell’anno C la conclusione del discorso parabolico. Questa conclusione comprende le due brevi parabole del tesoro nascosto (versetto 45) e della perla preziosa (versetti 45-46), che riguardano il tema del regno di Dio come “mistero”, cioè come “realtà salvifica”. La prima paraboletta insegna che il regno dei cieli non è qualche cosa di misterioso, impossibile da capire, ma semplicemente qualche cosa di nascosto, che non tutti conoscono. Lo conoscono i discepoli, i piccoli (cioè le persone dalla fede semplice), gli oppressi e gli affaticati (vedi Matteo 11, 25-30), che capiscono che il regno è come qualcosa di nascosto, come l’ha capito il personaggio della parabola che vende tutti i suoi averi, che gli procuravano false sicurezze, per questo bene superiore e prezioso. Entrambe le parabole si concludono con il messaggio che vale la pena vendere tutto per possederlo (versetti 44 e 46). Quante persone oggi come ai tempi di Gesù sono attaccate ai beni terreni da non avere neppure il tempo di pensare al paradiso. In queste persone dimora mammona e non Dio.
Segue la parabola della pesca (versetti 47-50) che riprende il tema della parabola della zizzania e del frumento (vedi Matteo 13, 24-30), mettendo l’accento sulla separazione che avverrà alla fine del mondo e sulla sorte dei cattivi, che saranno condannati all’inferno, descritto come una «fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti». Assicuratosi che la folla avesse compreso le parabole (vedi versetto 51), il divino Maestro conclude il discorso paragonando «ogni scriba, divenuto discepolo […] a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (versetto 52), dove le cose nuove e quelle antiche di quel tesoro sono rispettivamente gli insegnamenti di Gesù e quelli dei profeti del primo Testamento. Notiamo che la parola “tesoro” richiama la parabola del tesoro con cui si apre la conclusione del discorso parabolico.
Vediamo ora che cosa ci può dire questo discorso sul regno descritto mediante parabole. Intanto, per noi, salvo una trentina di stati al mondo, parlare di “regno” sembra qualcosa di anacronistico, come ancor più l’espressione “Cristo Re”. Anche se nel linguaggio teologico si parla spesso del regno con espressioni del tipo “avvento del regno” o “edificazione del regno”, nel linuaggio comune l’idea del regno non richiama quasi più nulla di concreto. Eppure, nel Nuovo Testamento il regno appare come l’oggetto primario della predicazione iniziata da san Giovanni Battista e da Gesù proprio con l’annuncio di gioia: «Il regno di Dio è vicino» (per Giovanni Battista: Matteo 3, 2; per Gesù: Matteo 4, 17 e Marco 1, 15). Si può dire che la “buona notizia” o “evangelo” (dal greco) che Gesù proclama consista appunto nella venuta del regno. La lunga attesa d’Israele con la venuta di Gesù è ormai compiuta; le antiche promesse si sono adempiute; la buona notizia è annunciata ai poveri e si accede al regno mediante la conversione e la penitenza. Gesù con le parabole del seme (vedi Matteo 13, 1-9.18-23), del granello di senapa (vedi Matteo 13, 31-32) e del lievito (vedi Matteo 13, 33) ci dice che il regno di Dio è già presente, ma è ancora lontano dalla sua attuazione definitiva. Il regno si edificherà gradualmente se i discepoli resteranno fedeli al comandamento nuovo dell’amore fraterno (comandamento nuovo in quanto ha come suo riferimento l’amore di Gesù (vedi Giovanni 13, 34). Il divino Mestro dovette correggere la mentalità maturata nella coscienza d’Israele, in quanto il regno di Dio non poteva consistere nella restaurazione della monarchia decaduta; si tratta di un regno che non è di questo mondo (vedi Matteo 27, 11; Marco 15, 2; Luca 23, 3; Giovanni 18, 36), anche se la sua costruzione comincia già sulla Terra. Inoltre, è un regno universale aperto a tutti, peché è il regno di Dio che è Padre di tutti gli uomini.
La Chiesa è strettamente legata al regno di Dio, anzi al compimento finale del regno, essa, in quanto comunità dei salvati, coincide con il regno stesso. In passato si riteneva che il regno di Dio fosse realizzato sulla Terra dalla Chiesa, in realtà la Chiesa è solo il luogo privilegiato nel quale lentamente il regno si edifica e che deve edificarsi progressivamente su tutta la faccia della Terra. Tutti i fedeli sono chiamati a costruire il regno di Dio nella logica del già e non ancora, in quanto nel regno di Dio tutto è già compiuto, ma tutto deve ancora compiersi e si compie ogni giorno con l’intervento congiunto di Dio e degli uomini. Se in passato l’identificazione del regno di Dio con la Chiesa costituì un pericolo per i cristiani, oggi si corre il pericolo opposto: quello di dimenticare che la Chiesa costituisce il germe e l’inizio del regno (vedi Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, n. 5). Di questo deve tener conto l’evangelizzazione, che non deve rimandare ad un futuro non prevedibile l’invito alla conversione, la predicazione del messaggio del vangelo e la proposta dell’inserimento pieno nella Chiesa mediante il battesimo, per rispetto ai tempi di maturazione della conversione. Il dialogo interreligioso, iniziato con il Concilio Ecumenico Vaticano II e accentuato sempre più dai pontefici, rischia di porre sullo stesso piano tutte le religioni e di tradire il mandato che Gesù Cristo ha dato alla Chiesa. L’accoglienza di riti pagani tradizionali in contesti ecclesiali, specie se ad essi è presente il Santo Padre, come è avvento recentemente in occasione dell’inaugurazione del Sinodo sull’Amazzonia, pone dei seri interrogativi su come venga salvaguardata l’originalità della proposta cristiana.
Don Ezio
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