Ha destato curiosità e scalpore a livello internazionale il Crocifisso donato dal presidente boliviano Evo Morales a papa Francesco, in occasione della visita di cortesia di due giorni fa. Al di là delle successive precisazioni, le possibilità di una corretta interpretazione della raffigurazione, tanto teologiche quanto storiche, sono molteplici.
Cristo vi è raffigurato inchiodato all’impugnatura di un martello che alla base si intreccia con una falce. Se il portavoce della Sala Stampa vaticana, p. Federico Lombardi – pur ricordando che i vescovi boliviani non sarebbero stati consultati in merito al regalo, come non lo sarebbe stato il nunzio pontificio – ha sottolineato come papa Francesco «non ha manifestato alcuna particolare reazione per il dono», alcuni organi di stampa boliviani hanno riferito che il Santo Padre avrebbe immediatamente preso le distanze dal particolare regalo, sussurrando che «No está bien eso» (o, secondo altri, «No sabía esto»).
Un dono successivamente ricondotto ad una dimensione non ideologica dalla ministra della comunicazione boliviana, Marianela Paco, che ha ricordato come l’oggetto sia una riproduzione di un’effige elaborata da padre Luis Espinal, gesuita rapito, torturato e ucciso nella notte fra il 21 e il 22 marzo 1980 da uomini ricollegabili al regime del dittatore Luis García Meza.
Un dono dunque «muy simbólico», secondo le parole della Ministra. Una «nueva cruz» che rappresenterebbe, nelle intenzioni che furono di p. Espinal, «el necesario pero huidizo diálogo cristiano-marxista, con los obreros y campesinos», come ricordava il 21 giugno scorso il gesuita spagnolo Xavier Albó dalla pagine del quotidiano boliviano La Razón. Una testimonianza, dunque, del difficile dialogo fra Cristianesimo e Comunismo e del rapporto – decisamente più diretto – fra il Vangelo e i poveri e i disperati della Terra, come lo erano i minatori boliviani in quegli anni di violenza e sfruttamento nel Paese sudamericano. La singolare effige del Crocifisso è riprodotta anche su una delle due onorificenze concesse al Pontefice nella stessa occasione, la medaglia Espinal.
Anche senza queste precisazioni, utili a ricondurre l’oggetto alla sua più plausibile dimensione, si può notare come la rappresentazione in sé non reca nulla di realmente blasfemo. Anzi, le possibilità di una sua corretta interpretazione, tanto teologica quanto storica, erano e restano molteplici. Con buona pace del presidente Morales.
La considerazione della falce e del martello come simboli de-ideologizzati e resi rappresentazioni del lavoro umano, potrebbe legittimamente condurre, ad esempio, a vedere in essi le croci di «milioni di poveri» che «condividono la Croce di Cristo, perché Cristo sulla Croce ha preso su di sé tutte le croci del mondo»1.
L’interpretazione di falce e martello come simboli del Comunismo apre invece ad un’altra possibile lettura, verosimilmente lontana dalle intenzioni di Morales, che considera la vittoria di Cristo sulla croce, strumento usato dai romani per la tortura e l’esecuzione capitale e dunque, in ultima analisi, della vittoria di Cristo sulla morte.
Da questo punto di vista, come in molti altri regimi, la persecuzione dei cristiani è stata una costante anche di quelli di stampo comunista, iniziando dalla Russia nel 1917 per proseguire, dopo la Seconda guerra mondiale, in molti Paesi oltre la cortina di ferro, sino ai giorni nostri. Una Chiesa del silenzio, condannata alla clandestinità e al martirio, alla quale solo pochi mesi fa, in occasione del suo viaggio apostolico in Albania, ha fatto riferimento papa Francesco, ricordando i tanti «cristiani [che] non si sono piegati davanti alle minacce, ma hanno seguito senza tentennamenti sulla strada intrapresa» in «quei decenni di atroci sofferenze e di durissime persecuzioni contro cattolici, ortodossi e musulmani» perpetrate dal regime comunista nel Paese. Un’ideologia che «aveva promesso il paradiso senza Dio, ma lasciava indietro l’inferno senza consolazione», come ha sottolineato al termine della Messa nella piazza dedicata alla beata Madre Teresa di Calcutta l’arcivescovo di Tirana, Rrok Mirdita, nel suo saluto al Papa, il 21 settembre dello scorso anno.
Anche in quell’occasione, nelle parole del Pontefice non è mancato un sguardo alla realtà di oggi, reso allora esplicito dall’Arcivescovo di Tirana, che ricordava il rischio concreto del «miraggio di un’altra ideologia: quella del benessere. Essa ha offuscato tante menti e ha accecato tante coscienze». Dal Comunismo al consumismo, con la crescita del divario fra i «pochi ricchi e i molti poveri» nei «mille volti illusori del materialismo pratico».
Anche nel suo viaggio apostolico in Bolivia, papa Francesco ha messo in guardia contro una falsa idea di «benessere», raggiunto a discapito del «bene comune». Nel discorso pronunciato due giorni fa nella cattedrale di La Paz in occasione dell’incontro con le autorità civili, il Santo Padre è tornato a sottolineare l’insidiosa confusione fra “bene comune” e “benessere”, «specialmente quando siamo noi quelli che ne godiamo, e non gli altri».
«Il benessere che fa riferimento solamente all’abbondanza materiale tende ad essere egoista, tende a difendere gli interessi di parte, a non pensare agli altri, e a cedere al richiamo del consumismo», ha detto papa Francesco. «Così inteso, il benessere, invece di aiutare, è portatore di possibili conflitti e di disgregazione sociale; affermatosi come prospettiva dominante, genera il male della corruzione, che scoraggia e fa tanto danno. Il bene comune, invece, è superiore alla somma dei singoli interessi; è un passaggio da ciò che “è meglio per me” a ciò che “è meglio per tutti”».
1. Giovanni Paolo II, omelia pronunciata allo stadio Indira Gandhi, Delhi, domenica 2 febbraio 1986, in occasione della Messa con i vescovi delle Province di Delhi e Agra.
© La riproduzione integrale degli articoli richiede il consenso scritto dell'autore.
Il Sismografo
Grazie per il preciso e opportuno articolo!!!
¡Gracias por leerlo!