C’è una deforestazione ambientale, ma rischiamo di produrne anche una spirituale. Richiamare in patria alcuni sacerdoti dell’area amazzonica che lavorano a Roma? Forse. Un vescovo venezuelano solleva una questione di grande attualità, anche in Italia.
Dopo l’apparente unanimità del fronte favorevole all’abolizione del celibato sacerdotale, strumentalmente sostenuta dal battage mediatico internazionale, al giro di boa del Sinodo trovano spazio alcune importanti voci dissonanti. Fra le altre, quella di padre Martín Lasarte, salesiano uruguaiano, per decenni missionario in Angola, responsabile dell’animazione missionaria in Africa e in America e voluto da papa Francesco fra i padri sinodali. Il suo richiamo alla necessità di un laicato formato, in grado di assumersi responsabilità anche in campo missionario, in luogo di una riproposizione del clericalismo in chiave amazzonica con i viri probati, merita grande attenzione. E, perché no, «laici e laiche impegnati in politica, che siano formati a dare concretezza alla dottrina sociale della Chiesa», come ha sottolineato mons. Pedro José Conti, vescovo di Macapá. Più in generale, però, come era prevedibile il Sinodo rischia di deragliare in un «referendum» – parola di vescovi statunitensi – sul celibato del clero, tanto più che il tema dei viri probati si è già tradotto in un dibattito più ampio pro o contro il celibato, finendo con l’oscurare altre importanti questioni all’ordine del giorno al Sinodo. A sostenerlo anche il vescovo brasiliano Wellington Tadeu de Queiroz Vieira, della diocesi di Cristalândia, in Brasile. «Non vedo il celibato come il problema principale. Abbiamo altri problemi e il maggiore che deve essere affrontato è la nostra mancanza di coerenza, la nostra infedeltà e scandali, la nostra mancanza di santità, che a volte rappresenta un ostacolo che impedisce ad altri giovani di seguire questa strada [del sacerdozio]».
E per quelli che l’hanno imboccata, il cammino ha talvolta condotto lontano dal proprio Paese di origine. A sollevare coraggiosamente il tema del depauperamento del clero locale è mons. Johnny Eduardo Reyes Sequera s.d.b., vicario apostolico di Puerto Ayacucho, in Venezuela. «La distribuzione di preti e religiosi non è buona», ha sottolineato il vescovo. In generale, si stima che due terzi degli 1,3 milioni di cattolici nel mondo vivano nell’emisfero Sud, mentre i due terzi dei circa 415 mila sacerdoti risiedano nell’emisfero Nord. Che sia il tempo, come sostenuto da un altro vescovo venezuelano al Sinodo, di richiamare nelle proprie terre alcuni dei sacerdoti stranieri che lavorano a Roma?
Se, messa in questi termini, la soluzione rischia di suonare come un “rimpatrio”, più in generale la presenza di sacerdoti, religiosi e religiose stranieri in Italia è al centro del dibattito anche in Italia ed è fotografata anche nell’ultimo Rapporto Immigrazione Caritas-Migrantes, presentato pochi giorni fa. «A tutt’oggi – scrive nel Rapporto mons. Juan Andrés Caniato, direttore regionale Migrantes dell’Emilia-Romagna – i sacerdoti italiani inviati in missione (i cosiddetti fidei donum) sono poco meno di 400, mentre i sacerdoti provenienti dall’estero e pienamente inseriti nel servizio pastorale delle diocesi italiane sono 820, senza contare i 646 sacerdoti che all’impegno prioritario dello studio teologico in Italia uniscono attività di apostolato nelle parrocchie. Sono 171 su 226 le diocesi italiane nelle quali sono presenti a vario titolo sacerdoti stranieri».
Non un problema di per sé, anzi. «Si tratta indubbiamente di un’enorme ricchezza culturale e spirituale per la Chiesa in Italia, testimonianza del fatto che la missione oggi è sempre più intesa come reciprocità, come cooperazione tra Chiese, per cui ogni Chiesa locale è allo stesso tempo comunità che invia e comunità che riceve». Tanto più che fra gli ambiti privilegiati di ministero dei sacerdoti stranieri in Italia si trova il servizio pastorale alle comunità di immigrati cattolici che si sono costituite nella diocesi italiane negli ultimi decenni. Una riflessione a parte meritano, poi, i sacerdoti cattolici di rito orientale, talvolta uxorati (sposati), con tutti i limiti che si pongono anche rispetto alla mobilità dello stesso prete, con moglie e figli al seguito, portatori di esigenze proprie, su tutte il lavoro e una continuità nella frequenza scolastica.
Più in generale, «si è rilevato che molto spesso l’arrivo e l’inserimento di un sacerdote [di nazionalità straniera, NdR] nell’ambito di un presbiterio diocesano non viene evidenziato né celebrato in alcun modo, per cui questi presbiteri rimangono presenze sconosciute alla maggior parte dei confratelli locali, alimentando una pericolosa sensazione di isolamento e di anonimato», prosegue nel Rapporto Immigrazione Caritas-Migrantes mons. Caniato. «Perché lo scambio non diventi puramente strumentale ad un bisogno immediato o resti legato a sensibilità personali, è necessario promuovere una progettualità in ambito diocesano che preveda un accompagnamento delle persone e il coinvolgimento del presbiterio e dell’intera realtà diocesana».
Un bel problema, allorquando la presenza di questi veri e propri missionari stranieri in terra di (ri)evangelizzazione – tale è oggi l’Italia e gran parte dell’Occidente – è mal compresa e sottovalutata. Fino ai casi estremi di essere strumentalizzata o di produrre un impoverimento umano e numerico di clero e religiose nei rispettivi Paesi di origine, spesso “in via di sviluppo”, con la neppure troppo celata intenzione di sopperire così alle lacune quantitative delle Chiese dei Paesi a più alto tasso di “sviluppo” (e di secolarizzazione). Su questi temi il Pontefice è già più volte intervenuto senza mezzi termini, anche in campo femminile. Perché, oltre a quella ambientale, non si assista anche ad una deforestazione spirituale.
© La riproduzione integrale degli articoli richiede il consenso scritto dell'autore.