All’opposto di quanto accade nel bel mondo di Basile e Perrault, ci siamo svegliati da una favola per tornare alla realtà. Tre anni di propaganda spesi a convincerci che una guerra sporca e complessa fin da principio fosse giusta e semplice, finiti tra i rovi di un castello incantato ridotto in macerie. Ultimo atto della politica plurifallimentare dell’amministrazione Biden e primo di quella, solo diversamente deludente, di Donald Trump.
Per non parlare dell’Unione europea. Mesi – se non anni – di campagna elettorale statunitense sembra non siano bastati a prepararla allo shock culturale della presidenza Trump. La dice lunga il disorientamento di fronte alla imbarazzante baruffa tra mezzani nella stanza dove Lincoln ricordava i caduti di Gettysburg e Kennedy affrontava la crisi dei missili di Cuba. E pensare che il nuovo entrepreneur in chief è persino in ritardo sull’ambiziosa tabella di marcia sbandierata in campagna elettorale: chiudere la guerra in Ucraina (e in Medio Oriente) in poche settimane.
L’estenuante trattativa sul tasso di interesse da applicare a centinaia di migliaia di morti ucraini e russi (e nordcoreani) è fra le misure più attendibili della profondità della crisi umana e politica del tempo che stiamo vivendo. Una sveglia che ha infranto i sogni di guerre combattute “per la pace”, in “difesa della democrazia” e per “l’autodeterminazione dei popoli”, come di recente nei Balcani, Iraq, Afghanistan e Libia. Sarebbe come illudersi, una volta di più, che a Donald Trump stia a cuore la pace più di un affare multimiliardario.
Quell’«abbaiare della Nato alla porta della Russia», di cui tre anni fa parlava papa Francesco, si è infine rivelato per quel che è sempre stato: una lotta fra cani per accaparrarsi un osso ancora da spolpare. Oltre al fumo, in Ucraina c’è anche abbondanza di arrosto: produzione di energia, giacimenti di metalli e minerali strategici, il 20% della disponibilità mondiale di grafite, e poi litio, cobalto, titanio, terre rare come lo scandio, ma anche carbone, ferro, gas e petrolio. In gioco ci sarebbero centinaia, se non migliaia di miliardi di dollari. Insomma ce n’è abbastanza per tutti, tranne che per la pace.
Soprattutto le cosiddette “terre rare” sono un termine ricorrente nella cronaca di questi giorni, per lo più associate a cifre iperboliche. Si tratta di materiali utili per la produzione di numerosi dispositivi tecnologici, compresi i cellulari a cui ci appelliamo per fuggire alla realtà, ma hanno soprattutto un ruolo di spicco nell’industria bellica e nel processo di transizione energetica. Anche l’economia verde ha un prezzo, pagato in sudore e sangue dalle migliaia di schiavi – veri e propri – che lavorano nelle miniere che scavano suolo e vite in Africa, America Latina e Asia.
Prima dell’invasione russa dell’Ucraina, l’Unione Europea aveva avviato negoziati con Kiev per garantirsi l’accesso a 20 delle 33 materie prime critiche del Paese: rimane da vedere cosa resta ora di quell’accordo. Per comprendere da che parte pende la bilancia del potere – e forse quella delle guerre di domani – è bene ricordare che secondo il Servizio Geologico degli Stati Uniti il grosso dei giacimenti di terre rare si troverebbe, nell’ordine, in Cina (in straordinario vantaggio, anche sulla logistica nel settore), Brasile, India, Australia, Russia e Vietnam. Gli Stati Uniti vanterebbero soltanto le settime riserve mondiali, di poco superiori a quelle della Groenlandia. Ricorda nulla? Curiosamente, soprattutto per la piega che hanno preso gli eventi, nell’elenco dell’Us Geological Survey, aggiornato nel gennaio 2025, non figura l’Ucraina.
Il regime democratico, soprattutto quello statunitense, è una creatura complessa e dai molti volti. Sarebbe illusorio provare a individuare il peggiore. Donald Trump – un imprenditore, un esattore di crediti, un usuraio, secondo i diversi punti di vista – è uno di questi. Semplicemente, incarna la politica degli Stati Uniti da almeno un secolo a questa parte, senza però quegli edulcoranti e coloranti che tanto piacciono alla vecchia signora europea. Nel disprezzarlo, dovrebbe essergli grata: una dieta disintossicante non potrà che farle bene. A patto però, che vinca la tentazione del riarmo come unico surrogato alla mancanza di identità e vocazione. È una battaglia persa, e per giunta priva di gusto.
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Quando la geopolitica si mescola con l’economia delle risorse, la pace diventa una pedina sacrificabile. Il vero problema non è chi si prende l’Ucraina, ma chi decide il prezzo del mondo di domani.
Il prezzo del mondo e dei suoi abitanti. Triste verità.