Qual è il vero sentimento di ogni campagna elettorale? Il corteggiamento. Che negli Stati Uniti ha per oggetto del desiderio i cattolici. Qualche volta sui generis.
Da tempo, ormai, la religione ha fatto irruzione nella politica americana. “Irruzione” e non “ingresso”, visto che è tradizionalmente una presenza per lo più strumentale, usata come un oggetto per colpire l’avversario o tramortire l’elettorato più che come una bussola per orientare le scelte di una politica “alta” e degna di questo nome.
Non fa eccezione la campagna elettorale in corso, nella quale Donald Trump ha già avuto modo di indicare Joe Biden come “contrario a Dio”. Nelle parole dell’attuale presidente il candidato democratico sarebbe fautore di una politica da «nessuna religione, niente di niente, ferire la Bibbia, ferire Dio. È contro Dio, è contro le armi». Unendo, nel consueto stile “America First”, fede e secondo emendamento, tutto e il contrario di tutto.
Ma che aria tira da parte democratica? Non molto diversa, in fondo. E se il fronte repubblicano ha i suoi nomi ricorrenti – fra gli altri, quello del card. Timothy Dolan, arcivescovo di New York, invitato a pregare alla convention repubblicana, come già nel 2012 con Mitt Romney – anche la compagine democratica ha i suoi.
«Normalmente evito tutto ciò che è apertamente politico, ma è difficile rifiutare una richiesta di pregare». Spetta al gesuita James Martin la dichiarazione che apre la lunga sfilata di invitati religious alla convention democratica in corso da lunedì. Molti gli esponenti cattolici, segno del particolare interesse politico per questa specifica fetta di elettorato da parte dei democratici del candidato presidente Joe Biden, cattolico lui stesso.
Cosa attendersi dal contributo di padre James Martin? Nulla di diverso da quanto già mostrato finora. La sua preghiera, spiega, sarà orientata al «rispetto per la dignità di ogni vita», incluse quella «nascente, dei giovani neri, degli adolescenti LGBTQ e dei migranti». L’infinita declinazione delle presunte diversità sessuali, in particolare, è fra i cavalli di battaglia di padre Martin, fra i religiosi più in vista d’America, speaker all’Incontro mondiale delle famiglie 2018 a Dublino e consultore del Dicastero vaticano per la comunicazione.
Padre James Martin, in effetti, incarna lo stile del cattolicesimo vissuto da Joe Biden: cattolico irlandese, educato dalle suore, ma vicepresidente di una delle amministrazioni – quella Obama – più friendly verso aborto e gender. È lo stesso Biden, nel libro Promises to Keep: On Life in Politics, a svelare il suo (misterioso) modo di conciliare quello che a rigor di logica sarebbe inconciliabile: «La mia idea di me stesso, di famiglia, di comunità, del resto del mondo viene direttamente dalla mia religione. Non è tanto la Bibbia, le beatitudini, i dieci comandamenti, i sacramenti o le preghiere che ho imparato. È la cultura». O l’assenza di un’autentica cultura cristiana, verrebbe da osservare, soprattutto con negli occhi l’impegno di tanti politici italiani intrisi di cattolicesimo, da Aldo Moro a Giorgio La Pira.
Padre James Martin non è, però, l’unico volto noto di parte cattolica che sarà presente alla convention. Spicca, fra gli altri, il nome di suor Simone Campbell, esponente di primo piano della Leadership Conference of Women Religious, organizzazione che ha sede nel Maryland e alla quale appartengono circa 1.500 religiose e laiche cattoliche, sotto indagine dal 2009 al 2012 per iniziativa della Congregazione per la dottrina della fede. Un’indagine motivata dalle diffuse rivendicazioni da femministe radicali, incompatibili con la dottrina cattolica, che ha condotto a chiedere profonde riforme alla LCWR, sopratutto in tema di aborto, eutanasia, ordinazione sacerdotale delle donne e omosessualità.
Già ospite di rilievo alla convention di Barack Obama, suor Campbell è stata per anni fra le più aspre critiche di Benedetto XVI, per poi rivolgere il proprio biasimo verso Francesco, reo – evidentemente – di aver tradito aspettative ben al di là del realizzabile (e del cristiano). Fra i temi più battuti dalla Campbell, insieme al sacerdozio femminile, c’è l’aborto. Solo pochi giorni fa, in un’intervista a Democracy Now, suor Simone Campbell dichiarava come «dal mio punto di vista, non credo che sia una buona politica mettere fuori legge l’aborto», consigliando agli attivisti pro-vita di «concentrarsi sullo sviluppo economico per le donne e sulle opportunità economiche. Questo è ciò che realmente fa il cambiamento».
Ma la politica, si sa, non è completamente priva di fede. È anzi animata da una profonda convinzione, comune su tutte le sponde dell’Atlantico e non solo: run with the hare and hunt with the hounds. Letteralmente, “correre con la lepre e cacciare con i cani”. Un colpo al cerchio e uno alla botte, si direbbe in Italia. È così che, per usare un’immagine biblica, si prova a rendere il fronte favorevole a Joe Biden una grande Babele. Se, «come la maggior parte degli americani, i democratici credono che ogni donna dovrebbe essere in grado di accedere a servizi di assistenza sanitaria riproduttiva di alta qualità, compreso l’aborto sicuro e legale», preoccupa l’incapacità di intercettare il voto degli attivisti pro-life. Non una bazzecola, se sono realistiche le cifre rese note: i voti di oltre 20 milioni di democratici pro-life, senza contare gli elettori ancora indecisi. In luglio una lettera dell’organizzazione Democrats for Life, firmata da oltre un centinaio di esponenti cristiani, fra i quali numerosi membri del clero cattolico, aveva chiesto al partito di «riconoscere la dignità umana inviolabile del bambino, prima e dopo la nascita».
Che Joe Biden intenda – e abbia la necessità elettorale – di raccogliere il più ampio consenso possibile è un dato di fatto. Anche la scelta di Kamala Harris per la vicepresidenza è un passo in questa direzione. Certamente donna e afroamericana, elementi che rendono la Harris la candidata democratica perfetta per questa fase della storia americana. Ma c’è di più. Nell’epoca del pluralismo religioso, la generazione più giovane del Paese, figli e nipoti di immigrati, trova nella Harris l’emblema di un’appartenenza multireligiosa sconosciuta alla maggioranza dei candidati bianchi e cristiani degli ultimi decenni. Figlia di un immigrato giamaicano e di un’immigrata indiana, Kemala Harris è stata educata in un clima di pratiche religiose cristiane e induiste. Ora, sposata con un avvocato americano di Brooklyn, ebreo, la Harris si professa appartenente alla Chiesa battista nera.
In una recente intervista, con toni singolari, il cardinale australiano Geoge Pell ha rimarcato l’importanza dei cattolici statunitensi a livello globale. «Siete di vitale importanza per noi dei Paesi più piccoli, contiamo su di voi per il vostro sapere, la vostra leadership… le strategie pastorali che implementerete e dimostrerete che hanno successo saranno osservate e imitate da noi», ha detto il Cardinale. Joe Biden si candida ad essere il primo presidente cattolico dopo John F. Kennedy, caso finora unico nella storia di un Paese profondamente legato alla proprie radici protestanti. Un candidato cattolico, o almeno virtualmente cattolico, per una convention – e forse un cattolicesimo – sempre più “virtuali”.
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