La parola è un’arma potente. Dai giovani che “fanno casino” ai parenti del demonio, passando per gli abusi sessuali e le presunte gaffe del Papa.
La parola ha un potere enorme ed è un’arma sia nel bene che nel male. Ad esserne convinto, tanto da farne il centro della propria vita, don Roberto Sardelli, il “prete dei baraccati” dell’Acquedotto Felice, nella Roma dei primi anni ’70, scomparso pochi giorni fa a 84 anni. Se i molti avvenimenti degli ultimi giorni hanno qualcosa in comune è la dimostrazione che la parola, soprattutto quella con la “P” maiuscola, è un’arma potente.
Strumento di riscatto per gli allontanati dalla società ma, anche per questo, più vicini a Dio. “Prete comunista” oppure testimone privilegiato della radicalità del Vangelo, don Roberto Sardelli fece della denuncia sociale uno stile di vita, pur nello spirito del dialogo e dell’incontro. A cominciare dagli immigrati dal Meridione d’Italia accampati fra le arcate dell’Acquedotto Felice, nella parrocchia romana di San Policarpo, della quale dal 1968 don Roberto Sardelli è collaboratore. L’anno successivo quella che era stata la baracca di una prostituta diventa la celebre “Scuola 725”, per decine di ragazzi il luogo del riscatto, e che vale a don Roberto Sardelli la laurea ad honorem in pedagogia, in virtù di un’esperienza che in Italia ha pochi eguali.
“Non tacere”, consigliava con un docu-film don Roberto Sardelli ai ragazzi. Un invito più volte rivolto anche da papa Francesco ai giovani di tutto il mondo, a cominciare dall’appello alla GMG di Rio De Janeiro, nel 2013. «Fate chiasso, fate casino, smuovete la Chiesa», aveva detto allora Bergoglio alla folla riunita sulla spiaggia di Copacabana. Un invito, reso concreto 5 anni più tardi dal Sinodo sui giovani, a non essere “giovani-divano”, accomodati sulle proprie false sicurezze materiali. Pronti, invece, a sporcarsi le mani nella testimonianza di fede e di vita cristiana, nella lotta all’emarginazione, nell’impegno etico e politico.
Non tacere – più – è anche l’espressione chiave degli scandali pedofilia e pederastia nella Chiesa. Con al centro, negli ultimi giorni, l’incontro sulla “Protezione dei minori nella Chiesa”, concluso da Francesco con un discorso destinato a cambiare la prospettiva del periodo buio vissuto dalla Chiesa: non un ripiegamento sulla difensiva, come molti si attendevano, né una resa passiva di fronte alla crisi, bensì il rilancio di un impegno globale di salvaguardia dei minori da ogni abuso di potere, «ovunque essi siano».
Parole – è la richiesta delle vittime di questi crimini e di quelli che ancora verranno a scoprirsi – che devono farsi azioni concrete, ma anche spingere la barca di Pietro oltre il porto sicuro dei falsi irenismi, denunciando con coraggio, al di là degli immancabili schieramenti, il peso evidente che nell’attuale crisi ha la diffusione dell’omosessualità fra il clero. Francesco docet. Senza sfascismi da apparentamenti col demonio, ma prestando la propria spalla – come il san Francesco di Giotto – ad una Chiesa in affanno.
Perché ci sono parole che alcuni non vorrebbero sentire. È successo 6 mesi fa, quando Francesco aveva fatto convivere nella stessa frase tendenze omosessuali nei bambini e psichiatria, provocando l’ira censoria del web e di qualche (in)comunicatore vaticano. Ed è successo di nuovo sabato, quando il Pontefice ha paragonato femminismo e machismo. «Invitare a parlare una donna – ha detto il Papa – non è entrare nella modalità di un femminismo ecclesiastico, perché alla fine ogni femminismo finisce con l’essere un machismo con la gonna. No. Invitare a parlare una donna sulle ferite della Chiesa è invitare la Chiesa a parlare su se stessa, sulle ferite che ha». Una posizione legittima, oltre che condivisibile, accolta dal consueto fuoco di fila o, nel più singolare dei casi, bollata su un quotidiano online come una «gaffe» del Papa. Vale a dire, Devoto-Oli alla mano, come una “espressione inopportuna che rivela inesperienza o goffaggine”. A proposito di parole e di gaffe.
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