In Ucraina la Russia ha portato la guerra. Sangue e morte. Ma come la stiamo raccontando, questa guerra? «Chi si pone delle domande viene subito visto con sospetto, quando non è bollato come provocatore o negazionista». Con poteri e lobby internazionali cui è già riuscito di strumentalizzare l’onda di umanità generata dal conflitto per incassare, più che una corsa alla pacificazione, una corsa agli armamenti. «Le bombe “intelligenti” di Abele hanno ucciso migliaia di civili in Iraq e in Libia». Cosa accomuna tutte le guerre? «La loro stupidità. E il tornaconto dell’industria delle armi». Un vecchio copione, sempre in scena. «Oggi è rimasto solo il Papa a ricordare che nel mondo ci sono guerre di cui nessuno ha voglia di parlare». Critico nei confronti di «un’informazione costruita nelle redazioni, davanti al computer, ai terminali delle agenzie, sulle reti sociali, senza mai uscire per strada, senza più “consumare le suole delle scarpe”, senza incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni» (Messaggio per la 55ma Giornata mondiale delle comunicazioni sociali).
Ne parlo con Giovanni Porzio, reporter, come dice di sé. Una qualifica maturata sul campo in prima persona, quando dal 1979 inizia a lavorare a Panorama, dopo la laurea in Scienze Politiche alla Statale di Milano. Reportage in oltre 120 Paesi, in molti dei contesti più difficili e violenti al mondo: Messico, Libia, Egitto, Siria, Iraq, Tunisia, Haiti, Brasile, Kenya, Myanmar, Sahel, Ucraina, Repubblica Centrafricana, Thailandia, Camerun, Bosnia-Erzegovina, Curdistan, El Salvador, Zanzibar, Mali, Venezuela, Cuba, Iran, Somalia, Afghanistan, Mozambico, Sudafrica, Algeria, Indonesia, Ecuador, Colombia, Arabia Saudita. Così come le tante, troppe, contraddizioni negli Stati Uniti. E poi l’Ucraina, anni fa e ancora in questi giorni. Numerosi i premi giornalistici, fra cui il prestigioso Max David nel 2002 per i suoi servizi dall’Afghanistan. Ha pubblicato, tra gli altri: Un dollaro al giorno (Tropea, 2012), Cronache dalle terre di nessuno (Tropea, 2007) e L’inganno del Golfo (Vallecchi, 2003). Sua la mostra Le mani nel cuore. Viaggio ai confini della vita.
Ucraina, una settimana in Arabia Saudita e ora di nuovo a Kiev. Cosa porta con sé da quella terra?
Sono arrivato a Kiev in febbraio, quinto giorno dell’invasione, e ho vissuto i momenti più difficili della città, quando la gente si rifugiava nei sotterranei della metropolitana, nei rifugi antiaerei, nelle cantine. Quando milioni di ucraini si mettevano in viaggio, in condizioni drammatiche, per raggiungere il confine polacco. Quando gli uomini scavavano trincee e bloccavano le strade di accesso con blocchi di cemento mentre le donne preparavano le bottiglie molotov. Quando i carri armati russi erano alle porte e i missili cadevano sulle fabbriche, sulle basi militari e sulle case dei civili nei sobborghi a nord della città. Porto con me la ferrea determinazione di un popolo che non è disposto ad arretrare di fronte ad un nemico molto più potente. Un popolo coraggioso, deciso a difendere la propria libertà anche a prezzo della vita.
Lei è tra i firmatari della lettera aperta pubblicata alcuni giorni fa su AfricaExPress. Che titola: “La guerra di propaganda fa un’altra vittima eccellente: il giornalismo”. Pensa che stiamo raccontando nel modo giusto la guerra in Ucraina?
Quella lettera ha suscitato polemiche ingiustificate. Il nostro era un invito a riflettere su temi che ci paiono rilevanti nel contesto di una guerra: il ruolo dell’informazione, i rischi della propaganda, la necessità di attenersi scrupolosamente a principi basilari del giornalismo, quali il controllo delle fonti e la verifica dei fatti. Problematiche a cui i grandi media internazionali prestano la massima attenzione e su cui sono state scritte decine di libri. In Italia, invece, chi si pone delle domande viene subito visto con sospetto, quando non è bollato come provocatore o negazionista. “Da che parte stai?”, ti viene chiesto. Ma il punto non è questo. Un giornalista non sta con nessuno, anche se dentro di sé sta con i deboli e gli aggrediti.
The Economist scrive che questo conflitto è diventato l’esempio più vivido di come i social stiano cambiando il modo in cui la guerra è raccontata, vissuta e capita, e di come questo può cambiare il corso stesso della guerra. Cos’è cambiato?
I social sono il mezzo più immediato per diffondere le notizie. Sono quindi di grande utilità. La loro diffusione, unita alla quasi assoluta assenza di controlli, è un’arma formidabile contro le menzogne della propaganda. Lo si è visto più volte qui in Ucraina: le fandonie propalate da Putin e dai suoi generali vengono regolarmente debunked (sfatate, ndr) sui social. Non altrettanto, forse, le affermazioni a volte inesatte o lacunose che provengono da Kiev. Ma i social sono un’arma a doppio taglio: nel loro flusso ininterrotto si nascondono fake news, notizie imprecise, non verificate o impossibili da verificare. I tempi stretti, frenetici, imposti oggi dai media non consentono quasi mai il lavoro di accertamento e di approfondimento.
Ieri Mariupol’, oggi Buča. Ma anche Buča è già ieri, sostituita da Borodjanka e Kramators’k. Di orrore in orrore. Ci sono immagini di questa guerra che le fanno ricordare altre sue esperienze?
A Borodjanka ho visto estrarre quattro corpi dalle macerie di un palazzo. A Buča altri 36 cadaveri sono stati riesumati da una fossa comune. Immagini già viste, molte volte, in tutte le guerre. Che sono diverse, ma sempre uguali nell’orrore dei morti, dei mutilati, delle vite distrutte, dei campi profughi, degli orfani. In tutte le guerre, dal ‘900 in poi, sono i civili a morire, e tra i civili i più deboli: donne, vecchi, bambini. È di loro, non di noi giornalisti, che si deve parlare.
Vittime e conflitti dimenticati?
Oggi è rimasto solo il Papa a ricordare che nel mondo ci sono guerre di cui nessuno ha voglia di parlare. Lo Yemen è forse il caso più eclatante, per la durata del conflitto, il numero impressionante delle vittime, dei profughi, degli sfollati, dei bambini denutriti. Ci sono molte altre guerre, ad alta o a bassa intensità, dimenticate o ignorate dai media. L’elenco è lungo: Somalia, Mozambico, Mali, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo. In Siria e in Libia si continua a combattere. E anche in Afghanistan. Ma è un elenco riduttivo. “Conflitti” che provocano centinaia di migliaia di vittime, milioni di profughi e migrazioni di massa sono anche le devastazioni causate dai cambi climatici, dalla povertà e dalle crescenti disuguaglianze sociali, dagli scontri etnici e religiosi, dalla corsa all’accaparramento delle risorse idriche, energetiche, alimentari.
Poche settimane fa abbiamo ricordato i trent’anni dall’inizio della guerra in Bosnia ed Erzegovina. Ancora orrori, ancora Europa. Cosa accomuna tutte le guerre?
La loro stupidità. E il tornaconto dell’industria delle armi. La Libia post Gheddafi è più stabile e democratica? L’Iraq post Saddam è un Paese più prospero e pacifico? Nei vent’anni dell’inutile guerra in Afghanistan sono stati spesi solo dagli Usa più di duemila miliardi di dollari: l’80 per cento in spese militari. Nello stesso periodo di tempo i profitti delle industrie militari sono quintuplicati.
Eppure, per la fornitura di armi all’Ucraina da parte di Stati Uniti ed Europa oggi si parla della necessità di “armare Abele contro Caino”. Non dimentichiamo, però, che armi statunitensi ed europee sono fornite, ad esempio, anche ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, “partner strategici” degli Usa, nella guerra contro i “ribelli” houthi in Yemen, vicini all’Iran. Non è sempre così facile capire chi ha in mano la pietra, per così dire.
L’ipocrisia e la malafede regnano sovrane, nei governi e nei media: è ovvio che gli Stati si muovono soltanto per difendere i propri interessi economici e geostrategici. L’Occidente che si proclama Abele ha invaso e bombardato per vent’anni l’Afghanistan per poi abbandonarlo al suo destino. Le bombe “intelligenti” di Abele hanno ucciso migliaia di civili in Iraq e in Libia. Le sue armi continuano a rifornire gli arsenali di Paesi in guerra, come l’Arabia Saudita e altri “partner strategici” nei quali i più elementari diritti umani e civili sono sconosciuti. Lo sappiamo, certo, ma ci ostiniamo a fingere che combattiamo per la libertà e la democrazia: petrolio, terre rare e minerali strategici sono meno vendibili all’opinione pubblica.
In effetti, se una parte del mondo ha trovato nella Russia di Putin un nuovo nemico, si sta anche impegnando a farsi nuovi amici: con disinvoltura, economisti e governanti parlano di sostituire gas e petrolio russi con quelli di Qatar o Arabia Saudita, oltre che degli Stati Uniti. Ci siamo svegliati in un altro mondo oppure stiamo soltanto passando da un brutto sogno ad un altro?
È un mondo frammentato e instabile dove le alleanze sono aleatorie. Putin è il nemico di turno, ma era fino a ieri apprezzato da molti politici, non solo italiani. Erdoğan, definito un autocrate dallo stesso Mario Draghi, è oggi visto come un partner decisivo nella partita diplomatica con il Cremlino. Poche settimane prima dell’attacco Nato in Libia Gheddafi era stato ricevuto con tutti gli onori a Roma e a Parigi. Sono solo alcuni esempi. Un elemento costante è la demonizzazione del nemico. Putin è un pazzo. Saddam era il macellaio di Baghdad. Gheddafi era il folle di Tripoli.
Nella foto: mega-convoglio russo rischierato intorno a Kiev. Bombardamenti più vicini alla città. © Giovanni Porzio (via Twitter).
Gli approfondimenti dedicati alla guerra fra Russia e Ucraina:
– sulle comunità ebraiche in Ucraina e i rapporti con Israele (Sergio DellaPergola)
– una lettura economica e geopolitica (Riccardo Petrella)
– un’analisi della guerra ibrida e della comunicazione (Marco Lombardi)
– qui un’analisi strategica della guerra (gen. Marco Bertolini)
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