Anche il Sinodo sull’Amazzonia si muove fra realtà e percezione. Con l’ipse dixit che è divenuto il leitmotiv della cronaca sulla Chiesa. Nel medioevo l’avrebbero chiamato principio di autorità, oggi è solo una bagarre fra partiti.
Fossimo nel Medioevo, potremmo scomodare il principio di autorità: la risoluzione delle controversie filosofiche, ricorrenti nella scolastica medievale, con il ricorso alla citazione di fonti considerate autorevoli. La situazione moderna, però, forte della sua presunta iridescenza sui “secoli bui”, appare più simile ad una diatriba fra partiti. Ben ritratta da uno dei passi più attuali delle lettere paoline.
«È forse diviso il Cristo?», domanda provocatoriamente Paolo in una sua lettera ai Corinzi (1Cor 1,13). A distanza di quasi duemila anni, nulla sembra essere cambiato. Da almeno sei anni a questa parte, infatti, vale a dire da quando l’animosità contro il Papa in carica ha assunto proporzioni mediatiche (non che prima fosse assente) il ricorso al “principio di autorità” sembra essere tornato di moda.
Basti vedere la narrazione mediatica dei giorni segnati dal Sinodo sull’Amazzonia, che, al pari di molti altri eventi, si muove fra realtà e narrazione, o meglio fra realtà e percezione. Una dicotomia che coinvolge anzitutto i temi del Sinodo, fra i quali i più appetibili a livello mediatico (viri probati) hanno già oscurato gli altri. Ancora più in profondità, però, il racconto del Sinodo Amazzonico si consuma fra attese e contro-attese, che giungono ad imporsi come dibattito reale.
Una dinamica che raggiunge il suo apice nei protagonisti – più o meno volontari – di tale discussione. Emblematico per comprendere non tanto il senso della diatriba ma il significato che le viene attribuito, è il sommario di un articolo apparso su Repubblica: «Le parole di Benedetto XVI – recita – fanno cadere tutte le accuse che il mondo conservatore muove a papa Francesco: si occupa troppo di ecologia. A ben vedere, a dare la linea fu proprio il suo predecessore». Con l’intenzione, probabilmente, di evidenziare la continuità fra Pontefice emerito e Pontefice regnante, ma finendo, in realtà, con il riproporre inevitabilmente una contrapposizione.
L’ipse dixit è divenuto il leitmotiv della cronaca sulla Chiesa. È quanto accade ormai abitualmente con alcune personaggi della scena ecclesiastica che, superato il ruolo di semplici intervistati, sono assurti a presunti capi-fazione. I “dubitanti” cardinali Burke e Müller sono solo due di questi, con la recente aggiunta del porporato canadese Ouellet. Proprio su di lui si è concentrato un certo interesse mediatico. Che sia «anche un cardinale vicino a Bergoglio» – si puntualizza – a «denunciare i pericoli dei Sinodi d’Amazzonia e Germania» rappresenta senza dubbio una gustosa novità.
A ben vedere, però, qualcuno si smarca. È il caso del card. Robert Sarah, «punto di riferimento dei conservatori», che in una recente intervista chiarisce: «Chi è contro il Papa è ipso facto fuori dalla Chiesa». Non è la prima volta che il porporato guineano traccia un confine fra sé e il variegato schieramento degli oppositori a Francesco. Non più tardi di sei mesi fa, lo stesso cardinale precisava che «coloro che vogliono oppormi al Papa perdono il loro tempo e le loro parole sono solo lo schermo che nasconde la propria opposizione al Santo Padre». Cerchiobottismo o sano realismo?
Se il partito anti-Bergoglio appare nutrito – forse più dai media che dai fatti – non di meno lo è il secondo esercito del Papa dopo la Guardia svizzera: gli adulatori. Verso i quali, peraltro, Francesco ha già detto di provare «allergia». Fra le armi più frequentemente impugnate, una pubblicizzata (e spesso molto presunta) “vicinanza” al Pontefice e il tacciare ogni perplessità come una “opposizione a Francesco”. A dirimere la questione ha pensato una volta di più lo stesso Pontefice, con un intervento senza mezzi termini: attenzione a non «preferire l’ideologia alla fede», finendo con il giudicare tutto, ma partendo «dalla piccolezza del proprio cuore». Altro che penne colorate.
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