“Allontana da me questo calice”, deve aver pensato mons. Mario Delpini alla notizia della celebrazione dei funerali di Stato di Silvio Berlusconi nel Duomo di Milano. L’esperienza, infatti, insegna che ad ogni pioggia di attenzione mediatica, non di rado maliziosa, Delpini ci lascia qualche ago. E così è stato anche questa volta.
Su la favola bella / che ieri / m’illuse, che oggi t’illude, scriveva D’Annunzio nella bella La pioggia nel pineto. Vivere, amare ed essere amati, essere contenti, dice oggi Mario Delpini. La breve omelia dell’Arcivescovo scrittore si gioca tutta sul filo della fragilità umana e dell’umana comprensione, spesso negata a se stessi la prima, spesso negata agli altri la seconda.
C’è di Agostino, oltre che di Ambrogio, nelle parole di Mario. In ogni verso c’è l’anima che non trova pace se non in Dio. Una fotografia del nostro tempo. C’è il bisogno di amore, che però diventa «come una storia complicata, come una fedeltà compromessa», insieme all’inconfessabile eppure banale timore che sia soltanto «una accondiscendenza» dettata dal potere e dal denaro; c’è la gloria transitoria che dà il mondo, quella «dei momenti belli, degli applausi della gente, degli elogi dei sostenitori», che passa come la fiducia se è quella del Parlamento e come i delfini nelle correnti di partito.
C’è soprattutto l’uomo (menzionato 16 volte, contro le 4 di Dio), uguale a se stesso in ogni tempo, eppure un altro frammento che se ne va della irripetibile epoca della grande, piccola borghesia italiana. C’è il mistero del senso della vita che sembra non trovare mai un senso, per tutto lasciare a Dio, anche i bilanci che contano, né finanziari né politici.
E, alla fine, c’è Dio. Alla fine, sì, ma nondimeno Dio vivo e vero, inevitabile meta e termine ultimo di giudizio, «mistero del compimento». C’è della nudità, nulla affatto scabrosa: «Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio». Alcuni la chiamano consolazione, altri un sacrosanto terrore.
Mentre fra le ombre scure delle colonne del Duomo si susseguono le riflessioni di mons. Delpini, all’esterno, ben oltre la piazza inondata di luce e di persone, sulla stampa e in Rete si rincorrono le reazioni, anche di alto livello. Ci vuole poco per accorgersi di quanto si sia illuso chi ha ritenuto conclusa la stagione del berlusconismo con il progressivo ridimensionamento politico di Berlusconi: tifoserie e opposte polemiche, sfilata di imbellettate e imbellettati di nuovi e d’altri tempi, fedelissimi di sempre e presunti tali.
Berlusconi è morto, ma non sono morti B., il “Berlusca” e l’eterno Cavaliere. È morto l’uomo, ma non i suoi personaggi, costruiti o subiti, nel bene e nel male. Per un giudizio storico maturo sul berlusconismo in Italia c’è ancora da attendere.
Celebrazione dell’umanità, arte della retorica o panegirico dei potenti? Curioso come le interpretazioni dell’omelia di mons. Delpini siano, per lo più, di segno opposto. A conferma del fatto che ogni alternativa, che avesse elogiato le virtù o sferzato i cattivi costumi – personali? politici? ideologici? -, sarebbe risultata naïf o fuori luogo.
Chi non apprezza le parole di Delpini è pronto ad infilare il proverbiale dito nella dolorosa piaga, forse più mediatica che personale, riesumando l’annosa faccenda del mancato cardinalato. Il copione sembra quello di un film già visto, senza che si possa neppure invocare l’ironia, come fatto in occasione del pasticcio di Como, non più tardi di un anno fa, con protagonista lo stesso Delpini, il Vescovo di Como e neo-cardinale Cantoni e, naturalmente, papa Bergoglio.
Tante sono le eredità che già pesano sull’Arcivescovo di Milano, che questa non sembra la più pesante. Una cosa è certa: vorrei che il mio funerale fosse celebrato da Delpini. Si parlerebbe, così, più dei suoi peccati che dei miei.
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