Scuse offerte e scuse che si chiede di fare. E poi la vergogna. E, ancora, la volontà di cancellare: talvolta più chi è accusato di aver sbagliato che non gli errori.
Chiedere scusa dopo uno sbaglio è buona regola. Lo si impara fin da piccoli, di solito, ma più difficile è farlo una volta diventati adulti. Eppure, questo sembra essere il tempo delle scuse. Non solo di quelle troppo spesso accampate, bensì del perdono, che di frequente è protagonista della cronaca, soprattutto ecclesiale.
Francesco a Pontcallec
A riaccendere i riflettori sono le scuse, a distanza di pochi giorni e per motivi diversi, presentate da Benedetto XVI e Francesco. A muovere quest’ultimo è la delicata vicenda dell’Istituto delle Suore domenicane dello Spirito Santo, comunità religiosa di Pontcallec, in Francia. Abusi sessuali e non solo: gravi questioni che non avrebbero trovato soluzione dopo l’intervento della Pontificia commissione “Ecclesia Dei” istituita da Giovanni Paolo II e soppressa da Francesco nel 2019. Nella lettera indirizzata in questi giorni all’Istituto, il Papa «accenna a “fallimenti” da parte di alcune autorità della Curia Pontificia e, ansioso di assumersene la responsabilità, si scusa», si legge nel comunicato diffuso dalle Suore domenicane dello Spirito Santo. Proprio mentre è stato rimesso in calendario l’incontro del Santo Padre con le delegazioni indigene dal Canada – con al centro la delicata questione delle violenze sui nativi, anche in alcune scuole cattoliche di Otto-Novecento – durante la settimana del 28 marzo prossimo e un’udienza finale con tutti i partecipanti il 1° aprile.
Benedetto XVI a Monaco
Ben più mediatica è però la vicenda che riguarda Benedetto XVI. Il Pontefice emerito è stato per giorni al centro di quello che in molti hanno ravvisato come un linciaggio mediatico, sostenuto anche da una fronda interna alla Chiesa cattolica da sempre contraria a Ratzinger e propensa a cogliere l’occasione per “regolare i conti”. Al centro della vicenda, la pubblicazione della relazione sugli abusi sessuali nell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga, governata da Ratzinger per cinque anni, dal 1977 al 1982. Circostanze terribili (497 minori vittime di abusi tra il 1945 e il 2019), in alcuni casi note da anni e già divulgate dai media internazionali, per alcune delle quali qualcuno ha avanzato omissioni da parte dell’allora Arcivescovo.
A scaldare gli animi è anche la rettifica di una dichiarazione di Benedetto XVI circa la sua partecipazione ad una riunione nel 1980 – prima negata e poi confermata – durante la quale venne discusso il caso di un prete pedofilo in arrivo a Monaco da un’altra diocesi tedesca (nella riunione non fu presa alcuna decisione circa un’eventuale assegnazione pastorale del sacerdote, spiega oggi Ratzinger, piuttosto venne accolta solo la richiesta di fornirgli un alloggio durante il trattamento terapeutico a Monaco). Benedetto XVI «chiede la vostra comprensione. A causa della sua età e della sua salute, ma anche per le grandi dimensioni del dossier, ci vorrà del tempo per leggerlo per intero», spiega il segretario particolare, Georg Gänswein. «É molto dispiaciuto per l’errore [nella precedente dichiarazione] e si scusa per questo». Le notizie riferite nel rapporto sugli abusi «lo riempiono di vergogna e di dolore per le sofferenze inflitte alle vittime».
Richiesta di scuse
Ma ad alcuni non basta. Benedetto XVI «dovrebbe fare una dichiarazione, mettere da parte le raccomandazioni dei suoi consiglieri e dire chiaramente e semplicemente: ho una colpa, ho commesso degli errori, chiedo perdono alle persone colpite», ha detto mons. Georg Bätzing alla televisione tedesca ARD. Parole tutt’altro che accomodanti quelle del Presidente della Conferenza episcopale tedesca e motore di quel cammino sinodale in corso in Germania. Bätzing ha parlato di un «danno immenso» causato dai commenti di Benedetto XVI al rapporto sugli abusi di Monaco. Accanto all’ennesima offerta di dimissioni giunta a Francesco dal card. Reinhard Marx, attuale arcivescovo di Monaco e Frisinga (già respinta da papa Francesco qualche mese fa), la pretesa di scuse rischia di suonare come un’imposizione venata di ragioni ideologiche.
Non può essere né dimenticato né cancellato
Dal canto suo, la Santa Sede ha per il momento affrontato la questione con una nota pubblicata sull’Osservatore Romano a firma di Andrea Tornielli, nella quale si rivendica l’importanza dell’operato di Ratzinger, «il quale già da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede aveva combattuto il fenomeno [degli abusi] nell’ultima fase del pontificato di san Giovanni Paolo II», e che «una volta diventato Papa ha promulgato norme durissime contro gli abusatori clericali».
È Benedetto XVI a vivere, prima che ad imporre, «quel cambiamento di mentalità così importante per contrastare il fenomeno degli abusi: l’ascolto e la vicinanza alle vittime». Che Benedetto XVI, a più riprese, incontra anche durante i viaggi apostolici. «È Benedetto XVI, anche contro l’opinione di tanti sedicenti “ratzingeriani”, a proporre, nel mezzo della bufera degli scandali in Irlanda e in Germania, il volto di una Chiesa penitenziale, che si umilia nel chiedere perdono». Vivere l’ammenda e incarnare la vergogna. Ed è ancora Benedetto XVI, dodici anni fa, a riconoscere con coraggio che «le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall’interno della Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa». Inutile ora, perciò, «la ricerca di facili capri espiatori e di giudizi sommari». Resta, quello di Benedetto XVI, un impegno che «non può essere né dimenticato né cancellato».
“Cultura” della cancellazione
Cancellato. Un termine interessante. Che ricorda la cancel culture, la cultura della cancellazione, quel pensiero unico – e pericoloso – che conduce a rinnegare la storia, giudicandola secondo categorie contemporanee. Che questo significhi bruciare chiese in America oppure imbrattare le statue di Indro Montanelli e Cristoforo Colombo in un parco pubblico.
Una cultura? Piuttosto la degenerazione del politicamente corretto e la più intransigente delle faziosità. Oltre che la più triste. Perché non può essere cultura ciò che demolisce, invece di costruire. Talvolta con la pretesa di cancellare più chi è accusato di aver sbagliato che non gli errori stessi.
Una «colonizzazione ideologica», piuttosto, come l’ha definita papa Francesco, che con le peggiori pagine del colonialismo ha in comune la defraudazione della possibilità di decidere autonomamente il proprio destino, l’eliminazione della libertà di espressione e un’uniformazione che si fa forza di un regime ideologico e autoritario. Un problema ancora più insidioso, se i pericoli della cancel culture sono denunciati soltanto dalla Chiesa.
Che ne è essa stessa vittima. Le accuse a Benedetto XVI sono un modo per dividere, una volta di più, la Chiesa tra progressisti e conservatori, tradizionalisti e innovatori, sinistra e destra. Tenere e cancellare, buoni e cattivi, che sono tali per quanto dura l’incostanza di una società. Liquida? Piuttosto, distruttiva come solo sa essere un bambino viziato.
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