Identikit di una Chiesa ferita dai frutti del secolarismo esasperato e dalla persecuzione. Risultato? Un cartellino arancione che sembra rosso.
Da un lato, una Chiesa che vive le asfissie di un Occidente secolarizzato e sconta decenni di malaffare, abusi sessuali e di potere. Dall’altro, una Chiesa che si misura con uno degli ultimi totalitarismi ideologici del nostro tempo, spinta a venire a patti con un regime pervasivo, quando non costretta alla clandestinità. Contesti apparentemente lontanissimi, eppure con esiti curiosamente simili.
Identikit della crisi francese
Recentemente si è tornati a parlare dell’adozione in Francia (ma la decisione è del 2021) di un celebret elettronico, evoluzione della storica “carta d’identità” dei sacerdoti, che ne certifica l’abilitazione al ministero. Un codice QR, simile a quelli sempre più diffusi su prodotti e servizi e facilmente scansionabile con uno smartphone, restituisce un immediato riscontro sullo “stato di salute” del prete: un consolante verde se è tutto in regola, un meno rassicurante arancione (curiosa la scelta di evitare il rosso, più tranchant) se il sacerdote è sottoposto a limitazioni, la cui natura è comunque riservata. Fra queste, l’elenco fornito dalla Conferenza Episcopale Francese comprende il divieto di celebrare la messa e amministrare i sacramenti, predicare in pubblico, avere colloqui pastorali individuali, partecipare a trasmissioni radiofoniche, televisive e via internet, sorvegliare da soli gruppi di giovani e restare da soli con un minore, anche in uno spazio visibile.
Sul web è subito un profluvio di fotografie di preti in posa con il nuovo celebret elettronico: chi lo tiene orgogliosamente di fronte a sé, chi lo sbandiera polemicamente come il simbolo di un’onta, chi lo posiziona a bella posta a fare capolino da tasche e schermi di cellulare. Va da sé, con il codice scansionabile rigorosamente coperto quel tanto che basta per non renderlo leggibile.
Ufficialmente il nuovo celebret elettronico serve a stabilire se il prete è validamente ordinato e a garantire una maggiore sicurezza contro le falsificazioni. Nessun cenno, almeno inizialmente, alla questione abusi sessuali. Che è invece la cornice ripresa dalla gran parte dei media internazionali. Va detto che ad avallare la connessione è un documento dello stesso episcopato francese, che colloca l’iniziativa in «un insieme di misure finalizzate a perseguire ed intensificare la lotta contro la violenza sessuale nella Chiesa».
In questo senso, ci sono precedenti. Nel 2016, per esempio, sull’altro versante dei Pirenei l’arcivescovo di Lleida, mons. Salvador Giménez Valls, ha firmato un decreto che impone a tutti i sacerdoti della diocesi, ai religiosi e ai volontari, in particolare a quelli in contatto con minori durante lo svolgimento del loro lavoro, di presentare un certificato negativo del Registro Central de Delincuentes Sexuales (Registro centrale degli autori di reati sessuali).
Bisogno di certezze nella crisi della Chiesa
Che ci sia bisogno di certezze, anche in una Chiesa preda di una grave crisi di fede e di orientamento, lo si evince dal modo in cui la questione è affrontata, anzitutto in Francia. Con sfumature differenti, l’iniziativa è di volta in volta intesa come uno strumento per «identificare i preti sanzionati», per «certificare l’idoneità di un sacerdote a celebrare la Messa», per «assicurarsi che i preti siano idonei a celebrare», per «fermare gli abusi sessuali nella Chiesa», per «smascherare i falsi preti» e per «meglio identificare i preti aggressori».
Anche le reazioni all’iniziativa francese, soprattutto in Rete, non risparmiano critiche di segno opposto. Da un lato, si ritiene la soluzione una pezza tardiva e inconcludente sul piano pratico. Dall’altro, ci si domanda perché individui con precedenti legati alla pedofilia, o in qualche misura oggetto di attenzione da parte delle autorità in tal senso, siano liberi di frequentare – “cartellino rosso” (pardon, arancione) o meno – luoghi che potrebbero metterli comunque in contatto con minori e persone vulnerabili.
Il peso dell’abuso e il peso del regime
Se nel secolarizzato Occidente è l’affanno antropologico – insieme ai suoi prodotti nefasti – a dettare l’agenda di molte Chiese particolari, in Cina è l’esatto opposto. Lì una Chiesa militante si misura da decenni con il peso opprimente del regime comunista. Che, se ha forse nel mirino soprattutto la Chiesa cattolica, non disdegna di tirare qualche colpo anche ad altre confessioni cristiane e religioni.
Lo dimostra l’iniziativa di adottare un registro online di preti, pastori e imam “ufficiali” cinesi, recentemente avviata – si dice – contro eventuali “truffatori”. Uno strumento di “trasparenza” – si dice –, attivo sui siti dell’Amministrazione statale degli Affari religiosi, dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi e degli organismi omologhi per le comunità evangeliche e musulmane. Il registro fornisce ai cittadini cinesi dati anagrafici, sesso, titolo religioso, denominazione religiosa e numero della registrazione ufficiale del religioso su cui è effettuata la ricerca, il tutto corredato da una fotografia. Qualcosa di simile è già stato introdotto per verificare l’identità di monaci buddisti e taoisti.
Un celebret in salsa cinese, tirato a lucido come un’anatra laccata, ma pur sempre l’ennesimo strumento di controllo del regime comunista. Xinhua, l’agenzia stampa ufficiale cinese, ne ha parlato come di una «sana trasmissione» dei contenuti religiosi. Qualsiasi credente di buon senso probabilmente la definirebbe in altro modo. Va da sé, infatti, che le implicazioni per le comunità di fede più sgradite in Cina sono pesantissime. A cominciare dalle maglie sempre più fitte strette attorno ai sacerdoti validamente ordinati nella Chiesa “sotterranea” – costretta alla clandestinità – che, in coscienza, non hanno accettato l’inquadramento negli organismi ufficiali dello Stato, controllati dal Partito Comunista Cinese.
Va anche detto che il clima di confusione alimentato dal regime comunista cinese non agevola la chiarezza: fra i 67 vescovi riconosciuti ufficialmente dalle autorità di Pechino, una decina sono comunque sottoposti a stretta sorveglianza da parte dello Stato, mentre sarebbero 13 i vescovi “sotterranei” tenuti sotto custodia o limitati nel loro ministero e una quindicina i sacerdoti cinesi che si sarebbero autoproclamati vescovi, sfidando al contempo le autorità civili ed ecclesiastiche. E la situazione si complica se si guarda ai casi di reale illegittimità e agli scomunicati.
Maglia nera e cartellino rosso
Quel che è certo è che si moltiplicano ormai, e da più parti, le denunce contro la persecuzione religiosa in Cina. Il recente Rapporto sulla libertà religiosa realizzato dalla Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) conferma per la Cina (e la Corea del Nord) la maglia nera a livello mondiale, in un contesto globale che vede complessivamente aggravarsi la persecuzione in odio alla fede. Proprio Cina e Corea del Nord sono indicati come i due Paesi asiatici con il peggior record di violazioni dei diritti umani, incluse quelle contro la libertà religiosa. Lo Stato vi esercita un controllo totalitario attraverso la sorveglianza e misure estreme di repressione contro la popolazione.
Fuori dal Rapporto di ACS, le critiche si rivolgono soprattutto all’accordo tra la Santa Sede e il regime di Pechino sulla nomina dei vescovi, stipulato nel 2018 e rinnovato – fra molte perplessità – nel 2020 e di nuovo nel 2022. Un Accordo stomachico, che ha già fatto digerire più di un rospo alla Santa Sede: ultimo, in ordine di tempo, la conferma pontificia a posteriori, pochi giorni fa, del vescovo di Shanghai, Giuseppe Shen Bin, trasferito in autonomia dal regime di Pechino e insediatosi già in aprile. Altro che cartellino digitale arancione, qui siamo al profondo rosso. Come a dire che, in fondo, esasperato secolarismo e repressione ideologica sono due lembi della medesima ferita, sempre più spesso incurata.
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