Meglio sgombrare subito il campo dai fraintendimenti: ben difficilmente potrebbero finire in un messale. Eppure anche Pier Paolo Pasolini e Oriana Fallaci avevano una “loro” versione della più profonda fra le preghiere cristiane, il Padre Nostro. Così come Dante Alighieri, che la fa recitare ai superbi del suo Purgatorio.
Questione di un “anche” e di un “abbandonare”. Se si esaurissero qui, sarebbero ben poca cosa le modifiche introdotte nella nuova traduzione della terza edizione del Messale romano, in vigore dal 29 novembre (anche nell’Arcidiocesi di Milano: in sintonia con le diocesi lombarde di rito romano, in attesa della nuova edizione del Messale ambrosiano, mons. Mario Delpini ha approvato il Rito della Messa per le Comunità di rito ambrosiano).
La verità, invece, è che ogni variazione nel Padre Nostro tocca corde intime, in quella che è da sempre la più profonda delle preghiere cristiane, da sempre protagonista di innumerevoli forme di espressione. E non potrebbe essere altrimenti, per un testo che è uno scorcio semplice eppure inafferrabile sul rapporto filiale di ogni uomo e donna con il Padre. Nessuno escluso.
Pier Paolo Pasolini affida il suo sofferto Padre Nostro ad Affabulazione, tragedia composta nel 1966 e pubblicata tre anni dopo nella rivista Nuovi Argomenti e infine in un’edizione postuma nel volume Affabulazione. Pilade, edito a Milano da Garzanti nel 1977.
Fra le opere più note di Pasolini, parodia dell’Edipo re messa in scena anche da Vittorio Gassman, Affabulazione racconta la storia di un padre di famiglia in preda a sogni angoscianti. Da qui, la versione non certo ortodossa del Padre Nostro, venata di passaggi struggenti, che raccoglie la confessione a Dio di un uomo perbene, forse troppo, ai limiti di un farisaismo borghese. Un uomo «mai stato ridicolo in tutta la vita», «mai stato maleducato una volta», che ha «mai dato l’ombra di uno scandalo», «protetto dal […] possedere e dall’esperienza del possedere».
Cambiato nel profondo da un incontro. «Lo so ben io cosa ho sognato quel maledetto pomeriggio! Ho sognato Te. / Ecco perché è cambiata la mia vita», gli fa dire Pasolini, chissà con quanto di autobiografico. Ne scaturisce la consapevolezza della vanità delle vanità, si direbbe con il Qoelet. «E allora, poiché Ti ho, / che me ne faccio della paura del ridicolo? […] Padre nostro che sei nei Cieli! / Che me ne faccio della mia buona educazione? / Chiacchiererò con Te come una vecchia […] / Padre nostro che sei nei Cieli, / cosa me ne faccio della buona reputazione / […] di non fare per nessuna ragione al mondo parlare di me? / Che me ne faccio di questa persona / così ben difesa contro gli imprevisti?».
«Eri così religioso, tu che ti presentavi come ateo. Avevi un tale bisogno di assoluto, tu che ci ossessionavi con la parola umanità». È l’eterna condizione dell’uomo quella che Oriana Fallaci attribuisce all’amico Pasolini in una lettera scritta dopo il suo assassinio. E non è meno schietto, né amaro, il Padre Nostro che la stessa Fallaci affida al suo Niente e così sia, un saggio sulla guerra del Vietnam scritto nel 1969 (Rizzoli). «Padre nostro che sei nei cieli / dacci oggi il nostro massacro quotidiano, / liberaci dalla pietà, dall’amore, dalla fiducia nell’uomo. / Dall’insegnamento che ci dette tuo Figlio. / Tanto non è servito a niente, / non serve a niente. / A niente e così sia».
Un’antitesi della preghiera, un urlo aspro e disilluso ma tutt’altro che insensibile alla fede, testimonianza di un anno passato dalla giornalista a Saigon fra il 1967 e il 1968 come corrispondente di guerra per L’Europeo. Atea dichiarata ma poco convinta, vicina alle posizioni cattoliche in tema di aborto, eutanasia e omosessualità, legata da amicizia personale a mons. Rino Fisichella, estimatrice dell’allora card. Joseph Ratzinger: basterebbe questo a tratteggiare la complessa personalità – e persona – di Oriana Fallaci, specie in materia di fede, ben rappresentata nelle poche righe del suo Pater.
Cos’è la vita? E perché la guerra? Sono queste le domande, mai inattuali, sulle quali è costruito il libro di Oriana Fallaci. Sembra farle eco, con altro stile, il Padre Nostro che Dante mette sulle labbra delle anime dei superbi del suo Purgatorio (Canto XI, vv. 1-24): «Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, / ché noi ad essa non potem da noi / s’ella non vien, con tutto nostro ingegno». Perché a poco valgono gli sforzi umani per conquistare un’effimera pace terrena, senza la speranza in un aiuto divino. E anche il tentativo di ottenere da sé la «cotidiana manna», il pane quotidiano, condanna ad arretrare più di quanto non conduca al progresso.
E rispetto alla dibattuta questione dell’abbandonare o dell’indurre? Dante la risolve con invidiabile maestria. «Nostra virtù che di legger s’adona, / non spermentar con l’antico avversaro, / ma libera da lui che sì la sprona. / Quest’ultima preghiera, Segnor caro, / già non si fa per noi, ché non bisogna, / ma per color che dietro a noi restaro» (“La nostra virtù, che si abbatte così facilmente, non mettere alla prova con il demonio, ma liberaci da lui che la provoca in tal modo. Quest’ultima preghiera, Signore caro, non la facciamo per noi, perché non ne abbiamo bisogno, ma per coloro che abbiamo lasciato dietro di noi tra i vivi”). E se la Divina Commedia «rappresenta il paradigma di ogni autentico viaggio […] l’orizzonte di ogni autentico umanesimo», come ebbe a dire papa Francesco, la poesia va oltre ogni polemica.
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