Nel caso Rupnik, l’arte potrebbe non essere solo il prodotto di una persona, ma di un sistema. Interamente da cancellare.
Si comincia dai mosaici di due porte laterali della Basilica del Rosario, a Lourdes. Per passare, in seguito, ai due varchi centrali. Il santuario è luogo giubilare, e le sue porte devono rivestirsi di santità, fosse anche attraverso dei pannelli di alluminio. In considerazione delle posizioni critiche già espresse in passato, la decisione del vescovo di Tarbes e Lourdes, Jean-Marc Micas, di nascondere i mosaici realizzati dall’ex gesuita Marko Ivan Rupnik non stupisce, ma ugualmente non si può impedire che crei scalpore.
D’altro canto, un ulteriore provvedimento era d’obbligo, dopo che il presidente della Pontificia commissione per la tutela dei minori, il cardinale Sean O’Malley, un anno fa aveva manifestato il rischio che il continuo utilizzo delle opere d’arte di Rupnik potesse far presumere una certa «indifferenza al dolore e alla sofferenza» delle vittime, quando non un atteggiamento «di assoluzione o sottile difesa» per l’ex gesuita. Per monsignor Micas si tratta di un secondo passo simbolico, ma sostanziale, dopo quello che aveva oscurato – letteralmente – i mosaici di Rupnik nel luglio 2024, negando l’illuminazione alle opere allestite sulle pareti esterne del santuario durante le processioni serali dei pellegrini.
Attorno al caso Rupnik, una delle ferite più dolorose inferte alla Chiesa negli ultimi decenni, è da tempo in corso una battaglia che coinvolge diversi ambienti ecclesiali, tanto silenziosa quanto furiosa. Nel dibattito pubblico c’è chi parla di censura, di interesse superiore dell’arte, e chi evoca la tolleranza dimostrata nei confronti della vita “maledetta” di artisti del passato, a cominciare da Caravaggio.
Nessuno di questi accostamenti è calzante.
Qui sta il vero nodo della questione: coprire (e meglio sarebbe in futuro cancellare del tutto, se le accuse venissero confermate) il lavoro di Marko Ivan Rupnik non è un modo per allontanare dagli occhi e dal cuore una drammatica pagina di umanità e di Chiesa. E neppure una rappresaglia. Sarebbe, piuttosto, la scelta di smantellare ciò che è impresso nella pietra di un sistema di potere con al centro il tutt’ora presbitero mosaicista.
D’altro canto, è indubbio che la vicenda Rupnik costituisca, per alcuni, l’occasione di regolare i conti, dentro e fuori la Compagnia di Gesù, così come per altri una maniera per gettare ulteriore discredito sull’intera Chiesa e nutrire la morbosa fame di dettagli scabrosi che spesso assale il pubblico dei grandi media.
Auspicabilmente, un processo getterà una luce definitiva sulla vicenda. Nel frattempo, gli ultimi aggiornamenti sull’andamento del processo canonico contro Rupnik dicono del completamento della fase di raccolta delle informazioni da parte del Dicastero per la dottrina della fede, mentre si starebbero ancora cercando le persone più adatte per formare un tribunale indipendente. Vale anche la pena ricordare che sono già stati presi alcuni provvedimenti contro Rupnik in passato: l’allontanamento dalla Compagnia di Gesù, per quanto tardivo, e la scomunica (in seguito rimessa) al termine del primo procedimento canonico, per la grave accusa di “assoluzione del complice”.
Se nell’ambito di un processo le testimonianze delle decine di donne che si dichiarano vittime di abusi da parte di Rupnik, molte delle quali consacrate al tempo dei fatti, venissero formalmente giudicate credibili, troverebbe conferma un sistema di potere deviato con pochi precedenti nella storia della Chiesa.
Sarebbe la dimostrazione di ciò che in molti già sospettano e temono: che sono cioè quei mosaici, che per anni si sono detti arte “sacra”, ad aver alimentato la fama che oggi fa da scudo a Rupnik. Quegli stessi mosaici che hanno contribuito in maniera sostanziale ad intessere la trama di contatti e amicizie internazionali che oggi protegge, potentemente e prepotentemente, Rupnik. Gli stessi mosaici che hanno garantito l’ingente flusso di denaro, a molti zeri, che ha reso meno intollerabile, salvo che per le vittime, l’intero sistema.
Sarebbe anche la dimostrazione che quei mosaici, realizzati mobilitando decine di artisti e di artiste della “bottega Rupnik”, sono i luoghi in cui si consumavano gli abusi sessuali, di potere e di coscienza da parte dell’artista sloveno. Luoghi di violenza sotto molteplici punti di vista.
Luoghi fisici delle molestie, perché sarebbero i cantieri degli allestimenti e i ritiri spirituali, fra la vertigine delle impalcature e quella delle preghiere, ad aver ispirato a Rupnik – stando alle testimonianze – le violenze odiose, in un misto di perversione e blasfemia. Che fa abuso anche di ciò che c’è di caro nella fede – dalla Trinità all’Eucaristia – per agevolare e giustificare la reiterata predazione sessuale.
Ma i mosaici sono anche “luoghi” di abuso in senso più ampio, perché è in quella commistione fra arte e misticismo che Rupnik avrebbe conquistato il proprio ruolo di maestro e guru, di artista e teologo, di padrone e padre spirituale. Un ambiente che viene delineato come tossico e di imperante clericalismo, humus per la prassi abusante e per un misticismo erotico rivoltante.
Tutto ciò dimostra anche la distanza fra la condotta, pur riprovevole, di Caravaggio, Rembrandt, Cellini e decine di altri artisti a dir poco irrequieti – più volte evocati in questi mesi e, di nuovo, negli ultimi giorni – e quella che potrebbe essere riconosciuta a Rupnik. Protetti dalla propria arte, certamente, ma che non è mai divenuta strumento di un sistema criminale. Perché se uccidere un rivale oppure utilizzare una prostituta come modella per ritrarre la Vergine, come accaduto a Caravaggio, è certo detestabile, come giudicare – quattro secoli dopo – le molestie seriali a decine di donne mentre si realizzano opere d’arte che si pretenderebbe poi di definire “sacre”?
Per quanto riguarda l’interesse superiore dell’arte, su queste pagine si è già affrontato il tema della cosiddetta cancel culture, movimento di iconoclastia incolta in salsa woke. Per le medesime ragioni, le sue forme di censura e ostracismo anacronistico non si applicano al caso di Marko Ivan Rupnik. Non si tratta, qui, di rivedere – né di revisionare – la storia a secoli di distanza, ma di combattere un crimine – se e quando verrà riconosciuto come tale – che insudicia centinaia di luoghi religiosi nel mondo.
Ritirarsi in preghiera davanti a queste opere potrebbe voler dire sostare in luoghi in cui la carne delle vittime, della Chiesa e di Cristo è stata nuovamente ferita. Ma non basta riconoscerlo. Alle ferite va posta cura. È tempo di una parola coraggiosa, che sappia farsi largo fra mistificazioni e mitizzazioni, oltre ogni aura di immunità. Tali sono il punto in cui si è giunti e la gravità delle accuse, che non è ammissibile alcuna via di mezzo: si tratta di mitomania di massa oppure di crimine gravissimo. Nessuna “arte” che sfumi la durezza dei fatti è più tollerabile.
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